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Domenico, l’aquila del Matese

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Matese. Tra moderno e contemporaneo

Vita difficile, con poche prede e di piccola taglia

Dopo la pubblicazione dell’articolo sul lupo del Matese, Maurizio Fraissinet, già commissario del Parco regionale del Matese torna a parlare in prima persone della sua esperienza a contatto con la biodiversità del nostro territorio. 
Questa volta, ci propone il suggestivo racconto della nascita e della prima fase di vita di Domenico, aquilotto nato sul Matese e involato dalle nostre pareti rocciose. 
Non si tratta solo di narrare un caso che apparentemente appassionata per la sua eccezionalità, ma è l’occasione per conoscere meglio e in qualche sconosciuto dettaglio la vita di volatili e altri animali selvatici del Matese, e in particolare sapere di chi ha investito la propria conoscenza a vantaggio della Scienza e del territorio.
È accaduto in passato e accade tutt’oggi grazie ad amatori e professionisti che di questa montagna non smettono di avere cura.   

Di Maurizio Fraissinet

La coppia che nidifica nel versante campano della catena montuosa, e quindi nel Parco Regionale, è la più nota della Campania. Nella regione, a dire il vero, la specie se la passa proprio male. Viene stimata una popolazione nidificante di 3/4 coppie distribuite sull’Appennino. Di queste la più studiata e da più tempo è quella del Matese.
Le prime ricerche risalgono agli anni ’80 dell’anno scorso e a lei è dedicata una delle monografie dell’ASOIM, l’Associazione Studi Ornitologici Italia Meridionale.
Nel 2012 Elio Esse, Danila Mastronardi e il sottoscritto pubblicarono un libro di 120 pagine interamente dedicato alla coppia nidificante nel Parco. Il volume giungeva al termine di un progetto di ricerca che aveva coinvolto 7 ricercatori ed era impreziosito da foto bellissime di Giulio Bulfoni, Maurizio De Vita, Elio Esse, Michele Mendi e del sottoscritto. Fu pubblicato dal Comune di Castello Matese con il contributo derivante dalla Misura 3.1.3 del POR Campania FESR 2007–2013.

Ma perché le coppie di Aquila reale se la passano male sull’Appennino campano, e la coppia matesina non fa eccezione?
Per la mancanza di prede. Non riesce a trovare prede di dimensioni tali da sostenere lo sviluppo di una covata. L’ideale sarebbero prede delle dimensioni di una Lepre, animale presente in Appennino e quindi anche sul Matese, ma con popolazioni ridotte e pertanto con densità piuttosto basse.

Un problema, quello della disponibilità di prede non facile da risolvere e per il quale provai a trovare delle soluzioni quando mi insediai nella carica di Commissario del Parco Regionale. Non facile perché le Lepri che abitualmente vengono utilizzate per immissioni venatorie sono della specie Lepre europea (Lepus europaeus), una specie alloctona che, come tale, non può essere introdotta in un’area naturale protetta. Nell’Italia centro-meridionale è presente la Lepre italica (Lepus corsicanus), divenuta piuttosto rare anche in seguito alle sconsiderate immissioni a fini venatori della Lepre europea. Nel periodo in cui ho svolto il mio mandato istituzionale non era possibile, o quanto meno molto difficile, trovare allevamenti di Lepre italica. Oggi le cose per fortuna sono cambiate e ci sono Parchi, come il Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni che hanno avviato un progetto di reintroduzione della specie.

La questione era quindi complessa. Considerai però che il periodo critico per la specie era soprattutto il periodo invernale, durante il quale le prede scarseggiavano ancor di più costringendo  i membri della coppia a fare ampi voli che le avrebbero portate anche fuori dei confini del Parco, con il rischio di restare vittime di atti di bracconaggio. L’accoppiamento nella specie inoltre avviene verso la fine di gennaio, quindi in pieno inverno, e un’eventuale stagione caratterizzata da scarsa alimentazione avrebbe potuto farla desistere dall’attività riproduttiva. Situazione già verificatasi qualche volta negli anni precedenti.

Pensai quindi alla realizzazione di un carnaio per il solo periodo invernale, sia per trattenerla nei confini del Parco, sia per dotarla del necessario apporto di cibo in un periodo così difficile. Perché solo in inverno e non anche in periodo riproduttivo? Perché non volevo che si abituasse all’alimentazione derivante dall’uomo e soprattutto non abituassero l’eventuale aquilotto ad alimentarsi nei primi mesi dall’involo sul carnaio e non a predare in natura.

Incaricai due giovani laureati, un veterinario e un naturalista, di predisporre un progetto per l’allestimento del carnaio e il monitoraggio della nidificazione. Per il carnaio individuammo un’area con rocce affioranti e vegetazione bassa non molto distante dalla provinciale che da San Gregorio Matese conduce al Lago. Doveva essere un luogo isolato, non visibile dalla strada ma, nel contempo non troppo distante per poter trasportare a mano le carcasse. Facemmo un accordo con la ASL e gli allevatori, con questi ultimi che ci avrebbero ceduto le pecore morte, con certificazione veterinaria che attestava l’assenza di patologie infettive. Le pecore ci venivano cedute gratuitamente. Gli allevatori però traevano vantaggio dal risparmio sui costi di smaltimento della carcassa.

Le prime volte non andò benissimo. Le aquile non si fecero vedere e in compenso le carcasse venivano prese d’assalto da Cornacchie grigie e Corvi imperiali, qualche volta (e questo ci fece piacere) dal Nibbio reale e dai cani randagi. Questi ultimi, in particolare la trascinavano via lasciando il carnaio sguarnito.

Capimmo allora che la carcassa andava fissata con un catena per impedire ai cani di portarla via. In seguito fu utilizzata anche dal Lupo, ma anch’egli dovette consumare il pasto in loco, non potendo portarla via.

Un bel giorno, finalmente, arrivò un bell’adulto di Aquila reale, nella sua elegante e fiera bellezza, con quel color dorato sul capo che la caratterizza e che giustifica il nome scientifico di Aquila chrysaetos. Fu una festa per noi del Parco. Il carnaio finalmente veniva utilizzato, anche se, va detto, ci avevano già dato soddisfazione le presenze del Nibbio reale e del Lupo.

Dopo qualche mese i due giovani ricercatori impegnati nel progetto ci informarono che la coppia aveva cominciato la nidificazione. Da lì a qualche settimana, come da programma, smisero di rifornire il carnaio e cominciarono a monitorare l’attività riproduttiva. In particolare si dedicarono a studiare la dieta del pulcino (ne nacque solo uno) riconoscendo con un cannocchiale, che ci permetteva di poter seguire la nidificazione anche da notevole distanza, le prede che venivano portate al nido. Fu sconcertante verificare che l’ipotesi che avanzavamo sulla scarsità di prede era stata giusta. Il maschio portava al nido prevalentemente Ghiri, una preda piccola che evidentemente catturava sfiorando le chiome degli alberi. Nulla in confronto alle grosse e grasse marmotte che le Aquile reali delle Alpi portano ai loro piccoli. Una volta vedemmo arrivare il maschio con un volpe tra gli artigli.

Con questa dieta povera il piccolo cresceva lentamente, tenendoci con il fiato sospeso sul buon esito della riproduzione, anche perché stava finendo il mese di luglio e non aveva ancora lasciato il nido. Quando eravamo già pronti ad incassare la cattiva notizia che il giovane avesse qualche problema e ad organizzarci su come fare per andare sulla parete rocciosa a recuperarlo per portarlo ad un CRAS, arrivò la bella notizia dai due ricercatori che, la mattina della prima domenica di agosto, avevano assistito all’involo di Domenico. Lo chiamammo così perché si era involato di domenica. Seguirlo ed individuarlo mentre volava con i genitori non fu difficile perché i giovani di Aquila reale hanno vistose macchie bianche sulle ali.

Ad inizio inverno ripristinammo il carnaio. Era già un po’ che non vedevamo Domenico. Le ipotesi erano due: aveva iniziato l’erratismo tipico dei giovani che si spostano su territori ampi fino a quando, al quarto anno, non cominciano a pensare di “mettere su famiglia”; oppure, e questa era ipotesi era quella più brutta, non ce l’aveva fatta a sopravvivere stante la penuria di prede.

Una mattina, dopo una discreta nevicata, trovammo una volpe morta investita da un’auto lungo la strada che porta al Lago Matese. La recuperammo e la portammo al carnaio. L’indomani ci recammo a visitarlo e dopo un po’ vedemmo arrivare un grande uccello delle dimensioni e della sagoma di un’Aquila reale. Quando scese per posarsi sulla carogna di Volpe vedemmo distintamente le macchie bianche sulle ali. Era Domenico! Era ancora sul Matese!

Dopo non lo abbiamo più visto. A gennaio i genitori allontanano i giovani perché devono cominciare a pensare ad una nuova stagione riproduttiva. La speranza di tutti noi è che sia ancora vivo e che abbia “messo su famiglia”.

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