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Cristo è un re “altro”. Ma che alterità? Commento al Vangelo di domenica 24 novembre

Commento al Vangelo della XXXIV domenica del Tempo ordinario

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Di Padre Fabrizio Cristarella Orestano
Comunità Monastica di Ruviano
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XXXIV domenica del Tempo ordinario
2Sam 5,1-3; Sal 121; Col 1, 12-20; Lc 23, 35-43

Oggi si parla di un reuna figura un po’ anacronistica, in ribasso sulle quotazioni del mondo. Ormai i re sono sempre più pochi sui troni politici del mondo e questo, da un lato rischia di farci sembrare questo titolo dato a Cristo strano e fuori dalle nostre categorie culturali, un titolo quasi da fiaba, da un altro lato però, se i re umani scompaiono o sono solo figure rappresentative e simboliche dove ancora ci sono, questo ci dà la possibilità di guardare alla regalità del Cristo come a qualcosa di davvero diverso e altro. Se i credenti ancora chiamano Gesù re è perché vogliono dire qualcosa di certamente diverso rispetto a tutte le regalità pensabili.

Già il Nuovo Testamento parla di una regalità altra che supera le regalità mondane ed anche quelle messianiche che Israele aveva sperimentato. Nella prima lettura, tratta dal Primo libro di Samuele ci è stata ricordata la regalità messianica di Davide. Le tribù di Israele la riconoscono mettendosi in alleanza con lui riconoscendo la vocazione che Dio gli ha dato di pascere il suo popolo. Ai tempi del Nuovo Testamento però l’esperienza monarchica di Israele è miseramente fallita e la regalità davidica è, per l’Israele fedele, solo una memoria di una promessa che la supera. Il re veniente sarà altro da quello che Israele ha sperimentato, da quello che i popoli sperimentano.

Ma che alterità? Per comprendere dobbiamo prima porci un’altra domanda: chi è un re? Certamente è uno che guida, che pasce, come  già diceva il testo del Primo libro di Samuele con tutta la tradizione profetica; è poi uno nel quale possiamo dire si riassume la totalità del popolo, ma è soprattutto uno che ha l’ultima parola su coloro che lo chiamano re; è il Signore. La festa di oggi allora potremo chiamarla Solennità della Signoria di Cristo. Una signoria che va riconosciuta e accolta per quello che essa è nella sua alterità. La liturgia di oggi ci propone con crudo realismo questa alterità, liberando la regalità di Cristo Gesù da ogni esito trionfalistico, di dominio, liberando la sua Chiesa dalla tentazione di farsi regno mondano stendendo tentacoli di supremazia sui regni e sugli uomini.

Il Cristo è davvero re perché ha parole definitive sulla storia, è davvero re perché tutto regge con la sua parola potente (cfr. Eb 1,3), è davvero re perché ha conquistato alla luce del Padre il mondo che si era gettato nelle tenebre di morte. Non bisogna dimenticare che è Gesù stesso che afferma la sua regalità. Nel Quarto Evangelo lo dice con chiarezza: Io sono re. Per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo. Se ci fermassimo qui sarebbe rischioso ma Gesù aveva anche detto, a scanso di ogni possibile equivoco: Il mio regno non è di questo mondo … non è di quaggiù (cfr. Gv 18, 36-37) ed il passo dell’Evangelo di Luca che oggi si proclama lo mostra con una chiarezza limpida e spiazzante. Questo re è altro perché non salva se stesso! Salva gli altri, i suoi torturatori, quelli che lo insultano, salva noi! Per ben tre volte la tentazione lo aggredisce sul paradossale trono della croce: Salva te stesso! 

La tentazione gli ricorda che ha già operato la salvezza di tanti infelici, di tanti poveri, di tanti disprezzati e davanti ai suoi occhi di crocefisso sono passati certamente i volti della peccatrice con il vasetto di profumo, del cieco che riapre gli occhi alla luce, dei lebbrosi con la loro pelle risanata, degli ossessi umanizzati, di Zaccheo raggiante di gioia e di speranza, dei suoi discepoli pieni di fiducia in un mondo diverso: li ha salvati! La tentazione gli ricorda che Lui può ma Gesù sa che è re, e anche i suoi uccisori l’hanno scritto in cima alla croce, è un re che salva il mondo perdendo se stesso. E questa alterità Luca vuole che noi la capiamo fino in fondo, una regalità davvero altra; Luca vuole che spazziamo via tutte le idee preconcette di regalità e anche di Messia: come l’evangelista ci dice questa alterità? Proprio nel titulus crucis, quel cartello posto in cima alla croce che dava ai passanti e l’identità del condannato e il delitto per cui stava su quel legno. In greco Luca così ci dice il testo del titulum: O basileùs tõn Ioudaíon outos che in italiano suona così: “Il re dei Giudei: questo!” Luca è chiarissimo; è come se ci dicesse: “Il re dei Giudei, il Messia è questo, questo crocefisso, questo perdente, questo che non salva se stesso (…) se pensate ad altra regalità state sbagliando!

Gesù aveva annunciato questo paradosso per tutta la sua vita, con tutta la sua vita: solo chi perde la propria vita la ritrova (cfr. Lc 9,24) e ora è lì a perdere la sua vita; se salvasse se stesso rinnegherebbe quel paradosso e così da re paradossale rimane lì, confitto alla croce in un’impotenza totale e sceglie di salvare e non di salvarsi. Come ultimo atto della sua storia su questa nostra terra salva un povero, il più povero, uno a cui si è fatto simile fino alla morte e alla morte di croce (cfr. Fil 2,8). Sulla croce, perdendo se stesso e donando salvezza senza salvare se stesso Gesù è davvero re, domina davvero. Domina quella tremenda “filautìa” che è amore di sé fino alla dimenticanza degli altri e di Dio; domina con l’amore e la misericordia l’odio che lo sta aggredendo inchiodandolo al legno dei maledetti; è re perché si fa ponte tra la terra dei poveri e degli ultimi ed il “paradiso” di Dio…nell’Evangelo di Giovanni Gesù dice: Io sono la via (cfr. Gv 14,6) e qui vediamo come Egli sia davvero via; via per chi riconosce nel paradosso la sua regalità, via per chi, come il ladro crocefisso, non ha paura del suo peccato e sa consegnarlo a quelle mani inchiodate apparentemente impotenti ma paradossalmente capaci di aprire quel “paradiso” che l’uomo chiuse con la sua disobbedienza e dinanzi al quale saettava la spada di fuoco dei tremendi cherubini posti a guardarne la soglia (cfr. Gen 3,24).

Fu la negazione della signoria del Creatore a chiudere quelle porte che ora vengono spalancate all’ultimo dei figli di Adam, al più reietto e  misero, a questo ladro crocefisso che però riconosce, nel Crocefisso che gli sta accanto, il Signore che ha le chiavi della morte e dell’inferno (cfr. Ap 1,18) e perciò è la chiave di Davide, se egli apre nessuno chiuderà (cfr. Is 22,22). La Chiesa oggi, al culmine dell’Anno liturgico, contempla questo re che è ragione di ogni lotta quotidiana per la santità e la giustizia, questo re che le dà la forza per costruire il Regno sapendo che esso è sempre dono dall’alto, questo re che mette in crisi tutti i regni del mondo e tutte le pretese di potere, questo re che regna dalla croce.
Alla fine dell’Anno liturgico la meta non è un compiacimento trionfalistico ma, ancora una volta, è una via contraddittoria alle nostre vie, la meta è una Signoria che non ci mette al riparo in una religione rassicurante ma ci chiede di rischiare di personaa caro prezzo (cfr. 1Cor 6,20). Alla fine dell’Anno liturgico questo re si mostra a noi come possibilità di un modo pieno per essere uomini, vorrei dire del modo pieno per essere uomini: nell’amore che si dona, che non salva se stesso ma salva l’altro!

Questo re è credibile perché senza svendere la sua Signoria si è fatto vicinissimo a noi ed alla concretezza della nostra umanità, fino alle nostre croci. Tanto vicino e prossimo che il ladro crocefisso lo può chiamare semplicemente Gesù (è l’unico in tutto l’Evangelo che lo chiama solo così, senza titoli…) e fa fiorire sulle nostre labbra quello stesso nome santo ogni giorno, nella confidente certezza che Lui è il Signore  che a tutto dona senso! Il Buon Samaritano termina così il suo viaggio, quello che Luca ci ha narrato in tutto il suo Evangelo durante quest’anno ed il finale è sconvolgente: è ferito come colui che ha soccorso! Ha le stesse piaghe e le avrà per sempre (cfr Lc 24,39) non per raccontare un eterno dolore ma per narrare un amore eterno. Di un Signore così ci possiamo fidare e possiamo camminare, pur tra le contraddizioni della storia, con l’ardente desiderio di pronunciare, come ultima parola delle nostre labbra, proprio come il ladro crocefisso, primo Santo del Regno, il nome del re fattosi compagno delle nostre vite: Gesù!

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