La cronaca è presto fatta: domiciliato presso l’abitazione della nonna, perché già agli arresti domiciliari, è stato arrestato e trasferito al Carcere di Santa Maria Capua Vetere dopo la denuncia dell’anziana signora per violenza e minacce di morte. Intanto le aveva sottratto la cifra di 100 euro dalle tasche della camicia. Una telefonata al 118 e l’intervento dei Carabinieri.
Una storia amara per la comunità di Piedimonte Matese che scopre (o riscopre) la violenza e la fragilità di un giovane ventiquattrenne, che l’Arma dei Carabinieri, nel dare notizia dell’accaduto ha descritto – per dovere di cronaca e in risposta al vero – “pregiudicato”.
Già sottoposto al giudizio della Legge per precedenti reati; già sottoposto al giudizio della pubblica opnione. Necessario dire anche questo.
Se una cronaca fosse la sola vetrina dei fatti accaduti, pur rispondendo al suo necessario dovere informativo, ci limiterebbe la riflessione sugli eventi; stamattina invece, estendere il racconto ad un’altra considerazione ci sembra doveroso e rispettoso di un mondo – quello di giovani come Umberto – che chiede aiuto e talvolta pietà.
Che non è giustificazione dell’illecito commesso, ma attenzione e allarme su quello stile di vita sbagliato che manifesta palesemente frustrazione, disagio, e l’assenza di relazioni e di confronti che edificano le persone, le costruiscono, ne frenano anche i peggiori istinti e le pulsioni.
È il prevalere di un Io che nel contesto globale (economico, politico, sociale, culturale in genere) rappresenta il lasciapassare per pericolose affermazioni di sé in barba ad ogni regola. Ammesso che di regole ne esistano ancora o che di essa ne venga “preso” e rispettato il valore oggettivo, o che qualcuno ne segnali la presenza e ne testimoni – da adulto – il rispetto.
Vittorino Andreoli, autorevole neuropsichiatra di fama mondiale, ha manifestato spesso e anche di recente, la severità sui fatti di violenza, di regressione sociale e politica del nostro Paese e di alcune categorie sociali, senza il timore di parlarne in termini di “barbarie” ormai alla deriva, senza la possibilità di alcun recupero.
Eppure, spiega il medico, nei giovani è importante credere sempre e ad essi dare fiducia.
È il morbo dell’io, scrive in un suo libro, che “limita la vita sociale degli esseri umani e la rende violenta”.
Un morbo spesso tradotto in forme di accertata e allarmante solitudine, la sola catena a frenare quel cammino dal buio ad una luce diversa e calda.
C’è la fatica oggettiva di riconoscere un “altro”, oltre all’io.
Ma in fondo, quell’“altro”, con quale identità si manifesta, quale modello rappresenta, quanta voglia di relazione mette anch’egli in campo?
La fatica crescente del “noi” alimenta e foraggia la convinzione che, da soli e con il potere in mano, è meglio.
Rubare, picchiare, minacciare. È perdita di ragione da parte di alcuni. Ma anche perdita di responsabilità – morali e sociali – da parte di altri.
È perdita di idee e programmazioni da parte della società civile, ecclesiale e della Legge, rispetto a misure pensate sull’uomo, e sulla necessaria dignità da riconsegnare nelle sue mani perché possa tornare a rivestirsi di decenza, ragionevolezza, amor proprio e rispetto e una positiva visione di futuro.
È silenzio tonfo intorno. Nulla di più.
Bontà, misericordia, solidarietà e sussidiarietà di parole e non di fatti? Talvolta un Vangelo proclamato ma non vissuto e tradotto e spezzato; talvolta una cultura solo ostentata ma non servita per il bene comune; altre volte una moralità di facciata, ma non esperienza vissuta.
Più gabbie mentali che spazi di incontro e occasioni per amare.
Se quel che accade a Piedimonte Matese e in tanti altri piccoli centri limitrofi (episodi di violenza e di inciviltà anche nei confronti dell’ambiente) ci allarma e ci pone domande (ce le pone?) sarebbe significativo che trascorressimo insonni la prossima notte.
Ma, se il bene genera il bene?