Matese tra moderno e contemporaneo
Non poteva che esserci riferimento alla Storia: in tempo di Coronavirus, da cui è particolarmente topccata l’Italia, il confronto si è esteso a tante altre (e più terribili) epidemie che in qualche modo e con forza, hanno segnato la vita di regioni e città nei secoli.
Questa volta approfondiamo dunque la peste a Napoli del 1656 analizzata dallo storico Giuseppe Galasso e l’epidemia di colera del Matese nel 1911 raccontata da don Giacomo Vitale.
Dalla ricerca d’archivio del professore Armando Pepe, continuano ad emergere particolari inediti e sempre più preziosi come quelli sul vescovo Pietro Paolo de’ Medici recuperati presso l’Archivio apostolico vaticano.
Il Matese di fronte al contagio tra antico regime ed età contemporanea
di Armando Pepe
IN ETA’ MODERNA
La peste a Napoli del 1656 nell’analisi storica di Giuseppe Galasso
Giuseppe Galasso (nella foto, ndr), nel libro Napoli spagnola dopo Masaniello, Volume I, in poche ma lucidissime pagine dipinge il quadro complessivo dell’epidemia pestilenziale del 1656, un flagello che rivoluzionò la vita quotidiana dei napoletani e dei regnicoli d’antico regime.
Scrive Galasso: « È lecito pensare che, al momento in cui fu dichiarato in atto lo stato di epidemia, ossia a metà di maggio [1656], il morbo avesse già fatto molto cammino tra il fitto, e non certo lindo, reticolo dell’abitato cittadino [di Napoli], e specialmente nella parte bassa di esso, tanto meno linda quanto più fitta. Il 30 maggio la Deputazione della Salute dovette adottare provvedimenti più organici, ordinando fra l’altro una intensa mobilitazione del personale sanitario presente in città e un vero e proprio censimento- denuncia degli infermi. Il 14 giugno fu necessario prendere una misura addirittura draconiana: la proibizione assoluta di uscire fuori di casa per tutti gli infermi, sotto pena di morte per essi e per coloro che li accompagnassero. Alla fine di giugno ebbe inizio il periodo più grave. Nel dicembre 1656, con solenni feste in Santa Maria di Costantinopoli, si dichiarò finalmente concluso lo stato di epidemia proclamato nel precedente maggio. (Galasso, pp. 41- 50)».
Posto che, nel 1656, la popolazione di Napoli oscillava tra i 400 mila e i 450 mila abitanti, la mortalità, causata dal morbo pestilenziale, provocò tra le 240 mila e le 270 mila vittime, come, con dati alla mano, calcola lo stesso Galasso.
Monsignor Pietro Paolo Medici e la peste del 1656 in Diocesi di Alife
Nel 1656 il vescovo della Diocesi di Alife era monsignor Pietro Paolo Medici, uomo probo e di riconosciuta dottrina. Per ricostruirne un profilo fededegno è utile risalire a una fonte ufficiale, il processo per la nomina episcopale (anno 1639) , che si trova presso l’Archivio Apostolico Vaticano, (ex Archivio Segreto Vaticano).
Pertanto, come in un vero e proprio processo, c’erano dei testimoni che ne confermavano il corretto agire e le pie virtù. Uno dei testimoni, il reverendo Francesco Maria de Zottis, affermò: «Io conosco il signor Pietro Paolo Medici da quindici anni in qua, con occasione d’esser stato Canonico della Cattedrale di Firenze; non sono suo consanguineo, affine, troppo familiare, emulo, né odioso. So che il signor Pietro Paolo ha trentasette anni in circa. So che è sacerdote da dodici anni in qua. So che è vissuto sempre cattolicamente e nella purità della fede. Pietro Paolo è persona grave e prudente, e questo lo so per avere trattato seco [con lui] molte volte. So che è ornato di dottrina ed è dottore dell’una et l’altra legge [in utroque jure, cioè in diritto civile e canonico]. Un altro teste, con il nome latinizzato in Joannes Bonaccensis [ presumibilmente Giovanni Bonaccini], fiorentino e conoscente di Pietro Paolo Medici, interrogato sul medesimo punto, ovvero sulla probità di quest’ultimo, disse: «Conosco monsignor Pietro Paolo Medici di vista [che] sono molti anni, ma di prattica [per averlo praticato] da tre anni in qua. Credo che monsignor [Medici] sia nato in Volterra perché suo padre è stato molto tempo in detto luogo. So che è nato da legittimo matrimonio e da honesti e cattolici parenti. Credo che sia dottore perché tiene un canonicato di Firenze, quale richiede il grado di dottorato; et in questo [canonicato] si è portato sempre egregiamente per la pubblica voce e fama. Credo che monsignor [vescovo] di Fiesoli [Fiesole] se ne sia servito in no so che carichi [incarichi] ecclesiastici».
Nel Catalogo de’ Vescovi di Alife, il canonico Giacinto Jacobellis, molto verosimilmente sulla scorta di documentazione pregressa, scrive che: «Durante ancora il suo [di monsignor Pietro Paolo Medici] governo, e precisamente nel 1656, fu edificata la nuova chiesa del Monistero di S. Salvadore. Ma quest’anno per altro fu molto luttuoso a Piedimonte, poiché, sviluppatasi la peste, non solo perdette moltissimi de’ suoi cittadini, ma, quello che è più, restò priva dell’ottimo padre e pastore Pietro Paolo de’ Medici, il quale, pieno di zelo, e di carità, scorrendo per ogni vico, e per ogni casa, nell’amministrare impavidamente i sacramenti agli appestati, contrasse egli stesso il contagio, e diè la vita per le sue amate pecorelle».
Monsignor Sebastiano Dossena e la relazione ad limina Apostolorum del 1659
Dopo monsignor Medici e/o de’ Medici la cattedra episcopale alifana fu affidata a monsignor Sebastiano Dossena, milanese e barnabita, la cui relazione ad limina Apostolorum (redatta nel 1659) è di fondamentale importanza per conoscere i dati demografici dell’intera Diocesi all’indomani della devastante epidemia di peste del 1656.
Il morbo aveva falcidiato la popolazione di Piedimonte, riducendola, da più di dodicimila, a tremilatrecento abitanti.
IN ETA’ CONTEMPORANEA
Don Giacomo Vitale e il colera del 1911 a Piedimonte d’Alife e dintorni
Durante l’estate del 1911 a Piedimonte si registrarono alcuni casi di colera e Don Giacomo Vitale, senza perdersi d’animo, prese carta inchiostro e penna per scrivere al venerato maestro, il professor Giuseppe Toniolo, a lungo professore presso l’ateneo di Pisa, ove aveva costituito un cenacolo di persone tenaci e propositive.
Scrisse Don Giacomo Vitale: «I paesi qui d’intorno sono stati afflitti terribilmente dal colera, Piedimonte però è restato immune in grazia delle cure profilattiche prese. Il nostro Circolo ha fatto tenere una conferenza popolare sul colera e la sua profilassi, ha fatto spargere i foglietti volanti dell’Unione Popolare e s’è offerto, in caso di bisogno, per prestar soccorso e assistenza ai colerosi. Per turno, i giovani del Circolo hanno vigilato la casa dei sospetti e dei contumaci, mostrando una buona volontà di adoperarsi a pro’ del bene e di esporsi anche di più se ce ne fosse stato bisogno. Per quanto si dica e si faccia, non si riesce però a sradicare dall’anima del popolino la credenza ferma che il colera sia voluto dal governo per diminuire la popolazione. Si ha orrore del medico, e quando proprio non se ne può fare a meno, si sente dire “Signor Dottore, non mi ammazzi; pensi che io son padre di famiglia, pensi che io ho dei bimbi da campare. Anche lei è padre; non mi ammazzi! E quelli che guariscono, dicono d’esser guariti perché non hanno preso certe polveri venefiche che il medico voleva loro somministrare, e quelli che muoiono, muoiono ammazzati, e il medico che li ha curati è segnato e fuggito da tutti come un assassino. Tale il popolino, ripeto, che però, un po’ a buona voglia un po’ a forza, sottostà alle misure igieniche (Pepe 2, pp. 45-46)».
Abbiamo riportato le scarne testimonianze di due persone che, con la forza della fede, sono state, per un’intera comunità, un saldo punto d’appoggio, ovvero monsignor Pietro Paolo Medici e/o de’ Medici e Don Giacomo Vitale, i quali, senza allarmismi- e il paragone con i titoli deflagranti di alcune testate giornalistiche nazionali non può che indurci a riflettere sulle attuali misere contingenze- hanno fatto in modo che la comunità diocesana, pur in mezzo agli sconvolgimenti, continuasse ad avere una parvenza di normalità.
Fonti, riferimenti bibliografici e online
Archivio Apostolico Vaticano, Arch. Concist., Processus Concist. 37, 54r.-65v.
Giacinto Jacobellis, Catalogo dei vescovi di Alife, dalle origini fino a monsignor Ottavio Puoti, e altre note sugli avvenimenti più interessanti accaduti durante i loro governi, manoscritto, anno 1847, conservato presso la Biblioteca Diocesana San Tommaso d’Aquino di Piedimonte Matese.
Giuseppe Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello. Politica, cultura, società, Firenze, Sansoni 1982.
Armando Pepe ( a cura di), Le relazioni ad limina dei vescovi della diocesi di Alife (1590-1659), Tricase, Youcanprint 2017, (Pepe 1).
Armando Pepe (a cura di), Il carteggio tra Giuseppe Toniolo e don Giacomo Vitale, Tricase, Youcanprint 2016, (Pepe 2).
http://www.storiadellacampania.it/relazioni-ad-limina-alife
Annali delle Epidemie occorse in Italia, dalle prime memorie fino al 1850, di Alfonso Corradi, Edizione online in Internet Archive, al sito https://archive.org/search.php?query=annali%20epidemie%20italia
Quest’ultima pubblicazione, fruibile online, mi è stata segnalata da Matteo Banzola, che ringrazio.