Home tutto sotto controllo La ragione contro la peste, la scienza contro le tenebre. È Lucrezio…

La ragione contro la peste, la scienza contro le tenebre. È Lucrezio…

"Pessimisti con l’intelligenza, ottimisti con la volontà", è il messaggio con cui si chiude il pezzo: un invito a stare nell'epidemia con coraggio e umanità

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Per la rubrica “Tutto sotto controllo”, dopo l’introduzione al tema e ai servizi che pubblicheremo, ecco il primo approfondimento a cura di Luca Di Lello.
Siamo tra le pagine del De rerum natura di Lucrezio, nella narrazione della peste che nel 430 a.C. piegò la città di Atene.
Buona e attenta lettura, perché dalla Storia e dai suoi protagonisti, impariamo ad essere ogni giorno migliori.

Luca di Lello – Una delle più note rappresentazioni letterarie di scenari di contagio, epidemie e disgregazione delle strutture del vivere associato è senza dubbio il finale del De rerum natura di Lucrezio. La narrazione della peste che nel 430 a. C. sconvolse Atene è sicuramente, sia per la posizione all’interno del testo, sia per le tinte stilistiche è forse la parte che più ha diviso i critici di Lucrezio sulle ipotesi interpretative dell’opera.

Come è noto, di Lucrezio possediamo pochissime testimonianze: una lettera di Cicerone al fratello in cui elogia l’opera (“multis luminibus ingenii” scrive) e poche battute di San Gerolamo (di quasi 400 anni posteriore) che ci informa della sua pazzia e del suo suicidio. Ciò contribuisce ad accrescere il mistero e a legittimare più ampi spazi di congetture ermeneutiche. Possono aiutarci la nozione di poema didascalico, che, inserendosi nel solco della tradizione tracciata da Esiodo ed Empedocle, ci conferma che ogni brano del testo è subordinato all’intenzionalità di un carattere edificante dell’opera. Esso è da identificare certamente col messaggio di Epicuro di vita intesa come esercizio razionale di ricerca del piacere, inteso come percorso di liberazione dal dolore e dalle angosce, ma anche come lotta tenace contro l’ignoranza e le infondatezze. E da realizzarsi esclusivamente nella dimensione individuale.

Lucrezio (siamo nel VI libro dell’opera) afferma che ogni zona del mondo ha le sue epidemie e, data la totale convenzionalità del concetto di confine, il morbo può spostarsi in ogni posto e così ha fatto la peste, che, generatasi in Egitto, è giunta sino ad Atene. Poi passa a descriverne i sintomi:

(Dapprima avevano il capo infiammato / e gli occhi arrossati brillavano gonfi / a gola sudava all’interno di sangue / nero; e la via della voce era chiusa, / sbarrata da piaghe; la lingua grondava / sangue, languiva pigra nei moti / ruvida al tatto. La lingua, interprete dell’anima).

Narra quindi quegli episodi che diventano spia di disgregazione della coesione sociale a partire dall’impotenza di quella che è la “prima forma di potere”, cioè quella del medico e l’abbattimento generale del morale che ne derivava:

(in silenzioso stupore, impotenti, / i medici erano fermi sugli occhi sbarrati, / di quei miseri insonni che aspettano aiuto […] La cosa più miseranda e più d’ogni altra dolente / era che appena qualcuno sentiva il peso del morbo / già come fosse dannato a morire / perdeva coraggio e restava con l’animo immoto / aspettando dall’esequie degli altri le proprie / e moriva guardando la morte degli altri)

e per finire i segni dell’assenza di ogni istituto di diritto civile:

(si vedevano funerali dovunque senza corteo / Non c’era dal male difesa sicura: […] / Infatti ogni culto dei Numi quasi era spento / l’angoscia vissuta oscurava il rispetto divino. / Né più di quei funebri riti restava l’usanza / già cara a quel popolo che sempre i suoi morti / inumava. Turbata, confusa era la gente / Miseria, pena e urgenza improvvisa / spingevano a compiere gesti nefandi: / alcuni con grande clamore ponevan su roghi / composti da altri le spoglie dei cari / e vi appressavan le faci spesso lottando / in risse cruenti a difesa del morto; / intorno ai sepolcri sorgevano aspre contese / e poi, sfiniti dal pianto, venivano via).

La posizione del brano nel testo è importantissima, perché l’intero poema è costruito su precise simmetrie. Ogni libro infatti contiene un proemio e un finale specifico. E questo, che lo è dell’ultimo, oltre a porsi in netta antitesi a quello del suo libro (che consiste nella lode ad Epicuro) si contrappone a quello dell’intera opera (che consiste nel celebre incipit dell’inno a Venere dea della voluptas, del piacere sessuale inteso come forza generativa della natura). In entrambi i casi dunque l’esatto opposto dello scenario di morte. E questo parallelismo ha aperto la strada a diverse esegesi testuali che vanno dal ritenere l’opera incompiuta fino al ritenere lo scenario macabro un contraltare ricercato della vita non-epicurea. Il critico Giancotti ha infatti sostiene a buon diritto che non è necessario un lieto fine, perché il messaggio di Epicuro non consiste in un lieto fine generalizzato ma semplicemente da un esercizio di discernimento, di ricerca accorta del sapere in cui si è in grado di oggettivare il reale e avviare percorsi di liberazione quanto più possibile da angosce, dolore e paura.

Queste conclusioni ricordano immediatamente la celebre chiusa delle città invisibili di Italo Calvino che esorta tutti a “cercare in mezzo all’inferno ciò che non è inferno”. Non è dunque un caso che la figura di Lucrezio, di cui Calvino si fa prosecutore in una linea di letteratura razionale e scientifica mai estinta, eserciti sullo scrittore sanremese un fascino preponderante. Specie nell’ultimo periodo della sua vita in cui andò sempre più intendendo la pratica letteraria come “filosofia naturale”. Troviamo infatti nelle sue Lezioni americane, edite postume nel 1988, nel brano dedicato alla leggerezza una dichiarazione di filiazione poetica da Lucrezio:

Il De rerum natura di Lucrezio è la prima grande opera di poesia in cui la conoscenza del mondo diventa dissoluzione della compattezza del mondo, percezione di ciò che è infinitamente minuto, mobile e leggero […] La più grande preoccupazione di Lucrezio sembra quella di evitare che il peso della materia ci schiacci. Al momento di stabilire le rigorose leggi della meccanica che determinano ogni evento, egli sente il bisogno di permettere agli atomi deviazioni imprevedibili dalla linea retta, tali da garantire la libertà, tanto della materia quanto agli esseri umani. La poesia dell’invisibile, la poesia delle infinite potenzialità imprevedibili.

Ed è proprio questa la linea che individua Calvino parlando di letteratura come funzione esistenziale, la ricerca di leggerezza come reazione al peso di vivere. Se è vero dunque che abbiamo riscontrato tante analogie tra lo scenario attuale e quello narrato da Lucrezio, le loro letture ci restituiscono l’unico atteggiamento giusto di fronte alla pandemia. Il discernimento lucido, razionale e scientifico, senza racconti edulcorati e consolatori, ma anche senza panico e irrazionalità. Un confronto quotidiano, dunque tra le nostre tante possibilità di agire e le infinite probabilità dello scenario che ci si pone davanti. Pessimisti con l’intelligenza, ottimisti con la volontà.

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