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Maturità 2020. Grazie “ragazzi del Covid19”!

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Grazia Biasi – Hanno avuto anche loro una “notte prima degli esami”, perché non c’è separazione tra le generazioni di ieri e quella di oggi di fronte alla prima prova della vita; non esiste “più difficile prima” e “più facile oggi” come qualcuno ha ipotizzato.
Esiste la diversità della Storia e dei suoi protagonisti e del modo di affrontare l’ostacolo…
Ciò che è incognita, ciò che è scoglio e fa paura, ciò che ti misura d’impatto con una realtà diversa, i nostri ragazzi lo hanno iniziato a sperimentare tre mesi fa: il loro esame dura ormai da tempo e loro ci si sono immersi con curiosità e pazienza, con paura e sacrificio, con creatività e costanza attendendo fino a pochi giorni fa di capire come sarebbero andate le cose.
Non hanno avuto la fortuna e il tempo come i loro “predecessori”, di pianificare l’esame, di concentrarsi sull’unico obiettivo (materie scritte e prova orale) prima di sferrare il colpo finale della loro migliore qualità, ma li abbiamo fatti pionieri di un’esperienza di cui essergli grati per sempre, perchè solo in un batter d’occhio gli è stata rivelata la strada, gli è stata concessa la possibilità di organizzare idee e lavoro. E ci sono riusciti.
Mi piace immaginarli artigiani del loro esame, alle prese con la sapienza acquisita, i pezzi di sapere da incollare, e il colpo di acceleratore dato al genio interiore perché un esame di maturità alla fine è la prova di ciò che sei diventato dentro (un alunno disciplinato, un uomo o una donna responsabili, un felice visionario, un creativo ma anche un razionale…, un fertile terreno…).
Alle defaillance della Scuola italiana, incerta fino alla fine sulle modalità di questo esame (e non solo), tanti di loro hanno persino replicato con l’affettuosa giustificazione “nessuno poteva sapere” o “eravamo tutti impreparati, ad ogni livello”: ciò che più li ha feriti è stato il venir meno dei legami e non il venir meno dei servizi; parole che fanno  emergere l’istintivo attaccamento e il bisogno di vicinanza a quella famiglia che li ha visti crescere e da cui non si staccheranno più, perché di fatto non c’è stata la naturale sequenza di eventi finali che lentamente recide un solido cordone: nessuna gita o festa, nessun discorso o pranzo di classe, nessun gavettone all’uscita di scuola, ma solo una serie di click a chiudere schermate di un pc divenuto il nuovo compagno di banco.
È la generazione che più di ogni altra resterà legata alla sua vecchia scuola, quasi come ad evere un conto in sospeso per sempre pensando all’esperienza mancata, alle parole non più dette ad amici e professori, alle occasioni di recupero che – nelle intenzioni – si volevano dimostrare.

Siamo grati a tutti loro, all’equilibrio di gioco e serietà che hanno saputo dare a questo tempo di lavoro da casa.
Soprattutto a quelli che in tre mesi, per il limite di mancati strumenti o connessioni, andrebbero le prime scuse di questo Paese, perché non hanno abbassato la testa.
E grati ai loro professori, ai tanti docenti italiani che hanno fermato gli orologi, dimenticato un “contratto ad ore” per essergli accanto h24.

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