Di Padre Fabrizio Cristarella Orestano
Comunità Monastica di Ruviano
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XXII domenica del Tempo ordinario
Ger 20, 7-9; Sal 62; Rm 12, 1-2; Mt 16, 21-27
Pietro ha “confessato” chi è Gesù: è il Messia; è dunque il Figlio di Davide, è il re d’Israele…ma che significava tutto questo nel cuore di Pietro? Credo che sia necessario capire una cosa: Pietro può arrivare a dire che Gesù sia il Messia ma non può andare oltre. Solo Gesù può dire che significa che Lui è il Messia. La grande fatica che Gesù ha dovuto fare è stata quella di capire non solo la sua identità messianica ma anche quella di reinterpretarla nell’oggi di quella storia, di quell’ora in cui veniva a visitare il suo popolo.
Il trono di Davide non esisteva più, il Regno di Davide era finito in pratica fin dal 587! Che significato può avere dunque per Gesù essere il Messia? E Gesù comprende, non senza sgomento, che la sua identità messianica si sposa con l’identità profetica, la sua realtà di Messia coincide con quella di un Rabbi, di un Profeta. Gesù parla dunque di un patire “necessario”…si badi non un patire generico ma un patire che è morte ignominiosa (“da parte degli anziani”, cioè è riprovazione ufficiale!) e violenta (“sarà ucciso”)… morte inflitta in giovane età; se è vero che Davide ha patito e anche molto e anche da re, è vero però anche che non ha patito nel modo di cui sta dicendo Gesù; i re, insomma, non hanno prefigurato nulla di quanto Gesù sta dicendo.
La morte violenta e ignominiosa l’hanno subita così i profeti. Nella prima lettura di questa domenica abbiamo letto quello straordinario passo di Geremia in cui il profeta narra del suo dolore, della seduzione che ha sentito da parte di Dio e del dolore che ne è derivato, “obbrobrio e scherno ogni giorno”. Gesù certamente ha dinanzi agli occhi questa esperienza di Geremia ma soprattutto è provocato da quella figura misteriosa del Servo di Adonai cantato dal Secondo Isaia nei suoi celebri carmi… Qui è l’originalità unica dell’interpretazione che Gesù fa del suo messianismo; un’interpretazione estranea ad Israele e dunque estranea anche ai discepoli ed in questo caso specifico a Pietro.
Questi l’ha chiamato Messia ma non ha capito cosa davvero diceva; certamente ha detto la verità, s’è lasciato guidare dal Padre, si è “guadagnata” per questo una betatitudine (cfr Mt 16, 17) dalle labbra di Gesù, ma ora? Era beato per la sua attitudine di quell’ora di farsi piccolo e “ai piccoli il Padre rivela i suoi misteri” (cfr Mt 11,25) ma ora è già “diventato grande”, è sicuro di sé ed ha smesso di pensare secondo Dio… Pietro è rientrato nelle logiche di calcolo degli uomini, è rientrato nella “carne e nel sangue”; è diventato persino arrogante; forse quella beatitudine l’ha reso vanaglorioso, tanto che osa passare avanti a Gesù rimproverandolo; tratta Gesù come un bambino che non ha capito bene, cerca di spiegare a Gesù come vadano davvero le cose. E si “guadagna” un bel “Satana” e con le stesse parole con cui Gesù aveva respinto il diavolo nel deserto: “Yupaghe Satana” qui con la sola aggiunta di opiso mu (dietro a me); Pietro deve tornare nella sua posizione di discepolo, “dietro” a Gesù, nella posizione della sequela. Ha osato passare davanti a Gesù per fargli da maestro, ora torni al suo posto di discepolo.
La differenza tra il Pietro della beatitudine e quello chiamato addirittura Satana sta nel fatto che il primo si fida di Dio ed il secondo si fida di sé. La beatitudine non è annullata, è invece fondata: si è beati se si lascia il primato a Dio ed alle sue vie e se si rigettano le proprie vie, i propri pensieri e le proprie comprensioni. Se non si fa così si costruisce su carne e sangue e non su Dio e i suoi progetti. La seconda parte dell’Evangelo di questa domenica è in parallelo con la prima; bisogna capirlo bene perché è molto importante per noi: la storia messianica di Gesù non può non riflettersi sulla storia di coloro che vogliono seguire Gesù. Pietro, in fondo, rifiutando la Passione di Gesù, il Messia sofferente, sta rifiutando la propria passione, sta rifiutando il discepolo sofferente. Insomma Pietro non tanto si preoccupa di Gesù, si preoccupa di sé…rifiuta di seguire un Messia che, in verità, aveva già detto una parola che ora prende tutte le sue fosche tinte: “un discepolo non è di più del suo maestro” (cfr Mt 10, 24).
Segue uno dei detti più fortemente autentici di Gesù, uno di quelli nei quali possiamo sentire proprio l’accento delle sue parole; è un mashal, un proverbio, volutamente urtante e paradossale: Chi vuol salvare la propria vita la perderà e invece chi perde la sua vita per causa mia la troverà”. Il tutto dopo l’invito a seguirlo prendendo la propria croce; La propria croce è la propria sequela di Lui, è il modo di ciascun discepolo di far morire quell’uomo vecchio che pensa secondo l’uomo e non secondo Dio, quell’uomo vecchio che si fa suggerire la vita da carne e sangue. La sequela di Gesù è possibile solo a chi è disposto alla morte dell’uomo vecchio e a chi è disposto a smettere di pensare a sé, è disposto a dire no a se stesso (cosa significa rinnegare se non dire no?); la sequela è possibile solo a chi è disposto a smettere di avere in cima ai propri pensieri il salvare se stesso; a Gesù lo diranno fino alla fine: sulla croce ancora dovrà sentire voci “sataniche” che gli grideranno Salva te stesso! (cfr Mt 27, 40). Chi salva se stesso, però, perde la vita perché perde il senso della vita che è nell’amore e chi salva la sua vita non salva gli altri.
Gesù qui dichiara che i suoi discepoli non possono non essere che con Lui…chi non entra in questa sua via non è suo discepolo: nessuno si illuda! Il testo di oggi si chiude con un fugace quanto forte accenno al giudizio finale in cui il Figlio dell’uomo sarà protagonista: il Figlio dell’uomo renderà a ciascuno secondo il suo agire. Qui si deve fare bene attenzione perché non si sta parlando di opere, di opere buone su cui si verrà giudicati ma si sta parlando di un agire preciso: la sequela di Gesù; si sarà giudicati, insomma, sulla verità della sequela di Gesù, sulla verità del prendere la propria croce e di dire “no” a se stesso, sulla verità d’essere disposti a perdere la vita. Si sarà giudicati sul proprio rapporto con Gesù; il giudizio, cioè la parola definitiva di senso sulla nostra vita, sarà pronunciato sulla sequela o meno di questo Messia sofferente; sulla scelta o meno di accogliere il rischio mortale di essere discepoli di questo Messia perdente per il mondo!
Una prospettiva del genere è davvero rivoluzionaria, è questa prospettiva che dà il volto autentico del discepolo di Gesù a ciascuno di noi ed alla Chiesa tutta.