Home Antropos Violenza e follia omicida. Nella parola lo strumento per uscire dall’orrore

Violenza e follia omicida. Nella parola lo strumento per uscire dall’orrore

Gli episodi di Cronaca nera, di cui i mass media nazionali ci rendono partecipi, inducono a riflettere sulla componente di crudeltà insita nella natura umana. Lo strumento per superare l'ipocrisia è la parola

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Davide Cinotti*Seguendo la cronaca Nera nazionale stiamo assistendo ad un periodo denso di violenze tra uomini, aggressioni, suicidi e uccisioni (Caronia, Colleferro, Cassino, Caivano, etc..), e di uomini contro la natura, incendi terrificanti. Che dire degli efferati omicidi aggravati dalla crudeltà umana di cui abbiamo sentito parlare di recente? Non voglio neanche citare di nuovo le vicende estreme che hanno visto soccombere neonati, bambini, madri, figli, adolescenti, anziani. Ciò che fa rabbrividire è la crudeltà, la spietatezza, la totale devastazione verso il corpo della vittima o verso le bellezze incontaminate della natura. Cosa sta succedendo in Italia? (Mi limito al nostro Paese perché andare oltre comporterebbe un carico di frustrazione enorme). Si sta attentando alla bellezza? Ci siamo dimenticati di qualcosa?

Innanzitutto è evidente che la follia omicida è appartenuta all’essere umano fin dalla notte dei tempi; anche la Bibbia, nella Genesi contempla l’assassinio feroce di Abele per mano del fratello Caino. Poi oggi il risalto mediatico accelerato rende il più atroce degli orrori passabile tra un piatto di spaghetti e una insalatina, tra una canzoncina di De Gregori e un crodino. Vi è senza dubbio oggi una palese espansione di un impeto necrofilo che porta la Tv a creare format di “approfondimento” dei crimini, una sorta di autopsia del reato, quasi a entrare visceralmente nel corpo della povera vittima iniziando un rituale di contemplazione che ha del sadico, con doviziosi particolari sulle atrocità subite dalla vittima. Già questo è l’orrore! Prima ancora del gesto folle, c’è un impianto comunicativo nella nostra società dove l’odio, l’aggressività, l’oltraggio, l’indecenza, la becera impudicizia e l’ignoranza hanno preparato il campo al compimento pratico dell’orrore. L’orrore è già nell’abituarsi allo stesso. Siamo dunque “in guerra” e non ne siamo ancora consapevoli!

Appunto all’esperienza disumana della guerra vorrei collegarmi. Pensavo al monologo del Generale Kurtz in Apocalypse Now, capolavoro di Francis Ford Coppola del ’72, ambientato negli orrori della guerra del Vietnam, dove per altro il regista si ispira al romanzo di Conrad, Cuore di tenebra: “Io ho visto degli orrori, orrori che ha visto anche lei.. Ma non ha il diritto di chiamarmi assassino. Ha il diritto di uccidermi, ha il diritto di far questo. Ma non ha il diritto di giudicarmi. È impossibile trovare le parole per descrivere ciò che è necessario a coloro che non sanno ciò che significa l’orrore. L’orrore ha un volto. E bisogna farsi amico l’orrore…orrore, terrore, morale e dolore sono i tuoi amici. Ma se non lo sono, essi sono dei nemici da temere. Sono dei veri nemici.”

Kurtz pone la sua riflessione sul potente disvelamento della più nascosta delle verità, quasi impossibile da accettare: l’uomo si è condannato all’ipocrisia nascondendo la cruda violenza nel limbo della morale. La guerra sociale, perché il numero elevato di aggressioni di questi tempi implica uno stato non conclamato di guerra, la guerra – dicevo – però disintegra quell’armatura morale dell’uomo. Veniamo educati ad un “essenziale buonismo”, alla complicità, alla coesione, oscurando la nostra più istintiva libertà con il giudizio morale, l’essere assoggettati ai canoni etici come vincolanti dalla società. Per dirla in parole povere, dobbiamo “agire in un certo modo”. Eppure, ad un certo punto, nella brutale e primordiale violenza della guerra, dice Kurtz: “Non esistono parole per descrivere lo stretto necessario a coloro che non sanno cosa significhi l’orrore.”

L’orrore è quindi l’impossibilità di accettazione e giustificazione della pura violenza, Kurtz ci racconta di aver pianto per i suoi delitti, ma di essere stato ammaliato per un attimo dagli stessi. L’uomo che fa lo stretto necessario, l’uomo con una famiglia, con un’emotività, totalmente svincolato dalla sua fragile umanità, uccide senza pietà, si pente dopo ma precedentemente è sedotto dalla violenza e della sopraffazione. L’uomo non è più uomo, l’uomo è consapevole di non dover essere uomo, perché, ed ecco il profondo paradosso, la “morale” della guerra è che tale violenza sia necessaria, non ammetterlo è la profonda ipocrisia, prenderne coscienza ci rende sinceramente liberi. Ricordarsi che rispondiamo a leggi di natura ma possiamo da queste svincolarci cominciando a temere innanzitutto noi stessi. Perché conoscendo la nostra vera natura possiamo evitare di abbassare la guardia. L’uomo civile deve imparare ancora a frenarsi, a controllarsi, a temersi. Deve continuamente ripassarsi che la sua vita ha un limite, che la vita stessa è un limite e deve necessariamente rispondere ai limiti. Se si vuol coesistere più o meno in pace.

L’orrore ed il terrore morale ci sono amici. In caso contrario allora diventano nemici da temere. Sono i veri nemici. Ecco il più complesso dei paradossi, la morale ci ha reso uomini e non animali, poiché abbiamo represso quel “primordiale istinto di uccidere”, costruendo una società complessa con una normatività vincolante; eppure proprio nel crimine omicida, nella violenza efferata distruggiamo la morale da noi stessa posta come fondamento per ritornare alla brutale essenza animalesca della lotta per sopravvivere. Kurtz, dunque ci mostra che l’Orrore non si limita alla crudeltà dell’uccidere, ma alla menzogna che l’uomo ha decorato attorno a sé per sopraelevarsi al mondo: quella del giudizio. Il giudizio è ciò che rende l’uomo ipocrita, giudice della sua stessa brutalità, condannabile più di tutto per il raziocino consapevole ad essa associato. L’orrore si rivela nello smascheramento della più grande menzogna umana, nell’ipocrisia insita nel giudizio, nel non ammettere di essere spietati. Ed allora cominciamo a spegnere la Tv, ma ritroviamo la parola, ciò che ci rende umani e ci differenzia dalle belve feroci, possiamo vivere e non sopravvivere e non dimenticare che lì dove non ci sarà più parola sorgerà sempre la violenza distruttrice del caos.

*Psicoterapeuta, responsabile del Centro diocesano per la famiglia “Mons. Angelo Campagna”

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