Di Padre Fabrizio Cristarella Orestano
Comunità Monastica di Ruviano
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XXVII domenica del Tempo ordinario
Is 5, 1-7; Sal 79; Fil 4, 6-9; Mt 21, 33-43
Gesù continua a parlare in parabole per tutti quelli che hanno preso le distanze dal Regno, perché non hanno avuto il coraggio e l’onestà di cessare di nascondersi dietro il proprio io (quell’ egò terribile del figlio che dice sì e poi non va nella vigna! (cfr Mt 21,30), o non hanno avuto il coraggio – come invece hanno saputo fare i pubblicani e le prostitute – di guardare in faccia il loro peccato, sentirne dolore e iniziare con Gesù la lotta contro di esso.
Gesù parla loro con una parabola che è una vera allegoria della storia della salvezza; tutti gli elementi del racconto, infatti, corrispondono ad eventi precisi della vicenda biblica.
Già il clima del racconto è profondamente biblico; il tema della vigna, infatti, attraversa tutta la Scrittura: dal celebre Canto della vigna nel Libro di Isaia, che abbiamo ascoltato quale prima lettura, fino a Geremia (cfr Ger 2, 21) e ad Osea (cfr Os 10,1). C’è poi lo straordinario Salmo 79 (80) che oggi si canta nella liturgia e in cui il racconto della storia di Israele è tutto impostato sulla metafora della vigna … su questo sfondo ricchissimo si staglia il racconto di Gesù.
Si badi che qui non si parla in primo luogo della vigna; il problema non è che la vigna sia cattiva o bastarda; il problema sono coloro che lavorano nella vigna e che dovrebbero permettere alla vigna buona del padrone di dare il suo frutto; c’è bisogno cioè di qualcuno che la faccia fruttificare.
I vignaioli cattivi non danno i frutti agli inviati dal padrone poiché ne hanno pochi o nessuno, sono stati cioè incapaci di fare frutti per il Regno di Dio!
Sarebbe stato loro possibile perché, per grazia, lavoravano nella vigna; avrebbero potuto, se solo avessero voluto pagare il prezzo della fatica e del “dare la vita” per quei frutti.
Per nascondere dunque la loro incapacità, la loro mediocrità, e la loro ignavia, i vignaioli sono capaci di fare il male, di calpestare la verità e la giustizia … e questo accade spesso tra gli uomini e perfino nella Chiesa! Si è capaci di tutto pur di non offuscare quell’ egò presuntuoso e arrogante di cui si riempiva la bocca il figlio della parabola precedente (Mt 21, 28-32). La vigna in mani così non può portare i frutti del Regno, non può realizzare i “sogni” di Dio.
Il sangue dei profeti, il loro dolore, le loro lacrime ed il loro grido inascoltato sono la risposta che troppe volte gli uomini danno all’amore fiducioso di Dio.
L’amore di Dio tante volte, troppe volte, e forse tutte le volte, si è concluso con un fallimento, e chi vuole seguire l’Evangelo deve fare i conti con questa dinamica. Dio non ha avuto paura dei fallimenti, anzi proprio con quei fallimenti ha narrato il suo amore, il suo amore ostinato, facendo fiorire l’ultimo grande fallimento, quello del Golgotha, con la luce inaudita della risurrezione del Figlio, caparra della risurrezione di ogni carne …
Il fallimento più grande di Dio ha assunto allora la forma della croce del Figlio, gettato fuori dalla vigna, fuori dalle mura della città santa (cfr Eb 13, 12).
Quella “pietra scartata”, di cui Gesù parla al termine della parabola, “è diventata pietra angolare, una meraviglia ai nostri occhi” (cfr Sal 118, 22-23), pietra che regge l’edificio dell’umanità nuova, libera dalla morte e dall’“io” sovrastante dell’uomo che si oppone a Dio.
La parabola di oggi è una parabola cristologica ed ecclesiologica, mentre narra la storia del Figlio che visita la vigna e non ne riceve che morte, dolore e fallimento, narra anche la storia di chi potrà portare quella vigna a fiorire di quei frutti di giustizia che Dio si attende.
Certamente Gesù indirizza la parabola ai capi del popolo e ai farisei, ma è un errore leggerla con la solita e perversa logica sostituzionista, per cui il vecchio Israele è rigettato perché infedele ed è sostituito dal nuovo Israele (cioè noi, la Chiesa!) che farà fruttificare la vigna.
Stiamo molto attenti perché qui non si tratta di ebrei o cristiani, ma si tratta di uomini di Dio o di uomini mondani; si tratta di chi ha fede e di chi vive di “religioni” rassicuranti ed auto-giustificative. Si tratta di chi ha il coraggio di perdere la vita e di chi ha l’ossessione di salvare sempre la propria vita, ad ogni costo, anche a costo delle lacrime e del sangue degli altri.
Se nella precedente parabola dei due figli Gesù diceva di prostitute e pubblicani che passano avanti nel Regno, qui c’è gente (e Matteo usa il termine generico éthnos) che può appartenere a qualunque popolo (in greco laós), ma che ha fatto una scelta di compromissione con il padrone della vigna e con la vigna stessa.
La parabola allora, come già capivamo la scorsa domenica, vuole “graffiare” noi, oggi; non andiamo a nasconderci dietro le diatribe tra Sinagoga e Chiesa, ma lasciamo che la parabola ancora una volta ci smascheri. L’Evangelo non vuole che noi facciamo “archeologia” dietro cui nascondersi, l’Evangelo non vuole darci armi contro “gli altri” (per esempio gli Ebrei, come abbiamo fatto perfidamente per secoli!), l’Evangelo vuole darci “armi” contro noi stessi, contro le nostre viltà, contro le nostre mondanità, contro le nostre logiche “religiose” che ci rassicurano e ci mettono sempre dalla parte dei “buoni” e dei “giusti”.
Nel racconto evangelico di questa domenica Gesù fa con i suoi interlocutori così come fece il profeta Natan con il re David (cfr 2Sam 12,7), facendo pronunziare ad essi stessi la loro sentenza. Alla fine Matteo dice che “essi compresero che stava parlando di loro” (Marco invece dice che capirono che “parlava a loro”): differentemente da David, il problema è che gli interlocutori non si faranno scalfire dalle parole che escono dalla loro stessa bocca, dimostrando di essere loro stessi i vignaioli omicidi. Il testo, nei versetti successivi, dice infatti che i capi dei sacerdoti e i farisei “cercavano di catturarlo”: non ci riusciranno in questo momento a causa della loro viltà, per paura delle folle; ci riusciranno tuttavia più tardi. E così restano con il loro peccato, con la loro volontà di nascondersi e di apparire retti, mentre sono solo sepolcri imbiancati, assolutamente incapaci di far fiorire la vigna del Signore; c’è bisogno di altra gente!
Possiamo onestamente essere noi?
Per esserlo, come sempre, dobbiamo farci una domanda: siamo disposti a pagare il prezzo del sì, a pagare il prezzo del dare la vita?
Solo gente così può lavorare con frutto nella vigna del Signore.