Di Padre Fabrizio Cristarella Orestano
Comunità Monastica di Ruviano
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XXIX domenica del Tempo ordinario
Is 45,1. 4-6; Sal 95; 1Ts 1, 1-5b; Mt 22, 15-21
La domanda che è posta a Gesù in questo celeberrimo passo dell’Evangelo, un passo usato ed abusato in mille modi, è una domanda ambigua e fatta certo in malafede: È lecito pagare il tributo a Cesare? Una domanda trabocchetto: se Gesù avesse risposto “no”, si sarebbe messo palesemente contro l’autorità romana e sarebbe entrato su un terreno politico che aveva sempre rifuggito, se avesse risposto “sì”, si sarebbe inimicato grandemente la folla del popolo che mal tollerava il tributo a Cesare, non solo per il fatto economico in sè, ma soprattutto perché il tributo ricordava loro di essere dominati.
La risposta di Gesù è nota; bisogna però dire che la traduzione di questo notissimo detto è imprecisa perché in realtà Gesù non dice date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, ma restituite a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio (verbo apodίdomi).
Si tratta, per Gesù, di ridare a Cesare quel denaro sporco di sangue e di ingiustizia che Cesare ha messo nelle loro borse comprando così la loro libertà, il loro cuore…d’altro canto si vede dal racconto che per Gesù è stato facile farselo mostrare dai suoi interlocutori: quel denaro con l’immagine di Cesare ce l’avevano in tasca! Quel denaro va ridato a Cesare perché quel denaro incatena al potere di Cesare e trasforma in pezzi dell’ingranaggio diabolico del potere…a Dio va ridato quello che a Dio appartiene perché da Lui è venuto: noi stessi, l’uomo che è immagine di Dio.
Se la moneta porta infatti l’immagine di Cesare, e perciò va ridata a lui, l’uomo, ogni uomo reca in sé l’immagine di Dio e va ridato a Dio; bisogna riconsegnarsi a Lui nella libertà e nell’amore così come Dio ha consegnato noi stessi a noi perché fossimo liberi ed attori reali della storia.
Gesù non cade nel tranello dei suoi avversari; non ha da trasmettere nessuna filosofia politica, ha da dirci, invece, che a Dio si deve dare un primato assoluto che non può essere conteso da nessuno e tanto meno da Cesare il quale gestisca pure il danaro che è sempre iniqua ricchezza (cfr Lc 16, 9) ma i discepoli di Cristo devono prenderne le distanze facendo scelte di altro profilo e consegnandosi a quel Dio di cui portano l’immagine nella piena fiducia in Lui e nella sua provvidenza. Una provvidenza che non è un astratto fideismo ma un concretoconsegnarsi nelle mani di Colui che dà senso ai giorni e dà vita a tutto. Un consegnarsi a Lui in tutto, senza lasciar fuori il cosiddetto “concreto” … Quanto è pericoloso questo ricorrere alla categoria del “concreto” contrapposto allo “spirituale” per cui tutto ciò che attiene a Dio e alla relazione con Lui starebbe in un regime bello, dolce, consolante ma in fondo evanescente … poi c’è il “concreto”, le cose di ogni giorno da cui bisogna tener fuori quello che dice l’Evangelo, la fede, la relazione con Dio … questa logica dei “bravi cristiani concreti” ha creato quella doppiezza deleteria alla credibilità dell’Evangelo per cui si può essere “bravi cristiani” ma conservando “per concretezza”, “perché si è uomini con i piedi per terra”, tutto l’arsenale di cose e scelte mondane
Il ridare a Cesare è allora da sganciarsi assolutamente da ogni etica tributaria, non lo si usi per incitare i cristiani ad essere buoni cittadini che pagano le tasse (eventualmente questo è contenuto in altre pagine del Nuovo Testamento…cfr Rm 13, 1-7); qui il tema è totalmente diverso: si tratta, come dicevamo, dell’assoluto primato di Dio, si tratta di sapere a chi si appartiene!
Anche i re ed i poteri di questa terra sono relativie Dio tutto regge, come dice con chiarezza l’oracolo del Libro di Isaia, che oggi si legge, riguardo a Ciro il Grande il quale ha un compito nel piano provvidenzialedi Dio e dinanzi al quale il profeta non fa altro che ripetere le parole del Signore: Io sono il Signore e non c’è alcun altro!
Il problema grande per ognuno di noi è proprio qui: è vero che Lui è il Signore e non c’è alcun altro?
Agli altri che si proclamano stoltamente signori, come Tiberio la cui effige era impressa sulla moneta del tributo, si restituisca ciò che a loro appartiene, si dia loro ciò che non conta o che conta nelle loro logiche e nei loro forzieri dove allignano ruggine e tignuola (Mt 6,20) … al vero Signore, invece, ci si consegni in tutto quello che si è e che si ha.
L’Evangelo di questa domenica va su questo versante, un versante ben più esigente di ogni dovere di pagare le giuste tasse agli stati, un versante che ci chiede di proclamare con la vita la nostra appartenenza al Regno o meno.
L’Evangelo, per quello esso è autenticamente, non tollera le mezze misure o le appartenenze doppie… Gesù dirà che non si può servire a Dio e a Mammona (Mt 6,24), non si può dire Amen a Dio ed alla mondanità, Mammona, infatti, deriva dal verbo ebraico Aman da cui proviene la parola Amen con cui, nella preghiera, si proclama il consegnarsi nella fede a Dio.
È su questo versante che oggi l’Evangelo ci interpella. È necessario rispondere senza doppiezze a partire dal contemplare con stupore l’immagine di Dio impressa in noi e che è potente appello alle vie del Regno. Se scopro davvero quell’immagine non avrò dubbi circa il destinatario del mio “restituire”, lotterò e pagherò un prezzo ma so a quali mani devo restituire ciò che ha impressa l’immagine di Dio.