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“Oggi abbiamo bisogno di preti con un forte senso della missione”, Gigi Proietti racconta la sua vita in oratorio

L'invito dell'attore italiano scomparso ieri, a sostenere i sacerdoti, a far sì che il loro sogni di bene per le comunità siano resi concreti grazie all'aiuto di tutti

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A poche ore dalla scomparsa dell’attore italiano Gigi Proietti, si moltiplicano i ricordi di lui, gli episodi che lo hanno reso un personaggio unico nel campo artistico del nostro paese e altri piccoli aneddoti che rivelano la profonda umanità del suo cuore. Rilanciamo una singolare testimonianza che lui stesso ha dato nel 2017 a Sovvenire, il Servizio che promuove tra i fedeli il sostegno economico alla Chiesa Cattolica

Ha percorso una carriera unica. Mai primi passi in oratorio non li ha dimenticati: «Santa Maria Assunta al Tufello fu per me una scuola di valori umani. Anche grazie a un prete non comune»
 
Di tanti artisti e ‘maschere’ del teatro e del cinema italiano di oggi, il più grande è cresciuto qui. Gigi Proietti l’infanzia l’ha trascorsa al Tufello, allora borgata in espansione di una Roma appena uscita dalla guerra, estrema periferia e avamposto di un’epoca. Proprio a Tufello e Val Melaina, De Sica era venuto a girare le prime scene di Ladri di bicicletteNato in centro storico, in via Sant’Eligio, vicino via Giulia, il 2 novembre 1940, il ragazzino Luigi Proietti affrontò presto con la famiglia traslochi in altre zone della capitale. Ancora lontano il suo futuro di interprete, trasformista, doppiatore e regista, Proietti entrò in scena in un coro parrocchiale. Voce bianca solista (per sorprenderci una volta di più).
 
Che ricordi ha di quegli anni?
Moltissimi bei ricordi. Ho frequentato l’oratorio della parrocchia Santa Maria Assunta al Tufello ed è stata un’esperienza importante, che non dimentico.
La parrocchia in quel momento storico aveva più compiti, oltre alla formazione religiosa: quello sociale, di togliere i ragazzi dalla strada, dove troppo spesso prendevano chine pericolose; e quello di trasmettere valori umani fondamentali, come il rispetto. Al Tufello ricordo un prete, don Luigi Carletti, che quando io ero ragazzino era lui stesso un ragazzo.
Ma rimase una presenza di riferimento per la nostra famiglia. Al punto che fu proprio lui, ormai molto anziano, che venne a casa e celebrò le nozze di diamante dei miei genitori.
A che attività partecipava in oratorio?
Da piccolo frequentavo la schola cantorum della parrocchia. Ero voce bianca solista. Ricordo in particolare che stavamo preparando una Messa di Perosi a sei voci, quando presi l’influenza. Il dramma si consumò quando vennero sotto casa i ragazzini, amici miei, a chiamarmi perché dovevamo andare alla prova generale.
Mia madre rispose che avevo la febbre e io, affacciatomi alla finestra con la coperta addosso, ho giusto accennato, “abbozzato” qualche parola. Ma loro, mi ricordo, mi fissavano a bocca spalancata perché avevo cambiato completamente voce. Da un giorno all’altro.
Ricorda altri episodi legati a quel periodo? E soprattutto che cosa significò per lei crescere in oratorio?

Il primo aneddoto che mi torna in mente è di quando, ormai cinquantenne, sono ripassato dal Tufello. Sono andato a rivedere la chiesa e ho scoperto che don Luigi era diventato il parroco. Allora l’ho chiamato dalla strada e lui, che era un pretone, corpulento e deciso, si affacciò e mi disse in dialetto romanesco: «Brutto puzzone…». Appena sceso, mi diede uno schiaffone. «Don Lui’, ma che fa?!». E lui: «Non ti sei fatto più vivo».

Don Luigi è stato per me un sacerdote indimenticabile, anche perché era quello che si dedicava alle attività con i giovani, e quindi al gioco, che è un elemento fondamentale, perché negli anni della crescita ti fa abituare alla condivisione con gli altri, a non chiuderti in te stesso. Del Tufello ricordo bene anche gli altri sacerdoti: il parroco don Parisio (Curzi, ndr), don Giovanni, preposto alla musica e un altro prete simpatico, don Goffredo.
Poi abbiamo cambiato casa, ci sono stati altri trasferimenti, che mi hanno portato lontano da lì. E allora sono cominciati gli anni della parrocchia di San Giovanni Battista De’ Rossi, nel quartiere Appio-Latino, vicino all’Alberone, dove c’era don Romano, dal profilo più intellettuale, un’altra figura di riferimento per me.
“Si spendono nelle città difficili
in cui viviamo,
al servizio di quelli che altrimenti
sarebbero dimenticati.
È l’aspetto della missione
dei sacerdoti
che mi impressiona di più”
 
Negli anni, tra gli innumerevoli ruoli della sua carriera, c’è stato anche un san Filippo Neri in una fiction tv, Preferisco il Paradiso. Dunque proprio il santo prete di strada che inventò l’oratorio. Com’è stato interpretarlo?
È stata un’esperienza non comune. Soprattutto perché mi ha riaccostato, almeno a livello di riflessione personale, a qualcosa di sopito in me: alla religiosità, intesa proprio come comunità riunita, in una norma di vita condivisa.
Sono tornato con la memoria anche alla mia adolescenza nella quale ero stato chierichetto e sapevo tutta la Messa in latino. Attraverso questo personaggio di grande profondità pastorale intendevamo parlare almeno una volta, senza timore di essere tacciati di buonismo, proprio di bontà, di dono generoso di sé e di vero senso della solidarietà.
Secondo lei, che ruolo hanno i sacerdoti oggi e perché crede che sia importante sostenerli?
Nella nostra società c’è l’esigenza di ritrovare valori essenziali di convivenza e di vita. Come il rispetto, che la parrocchia ai miei tempi insegnava bene, assieme alla disciplina personale e allìimportanza del rito, che dava senso a molte cose.
Indicava un “oltre” su cui soffermarsi. Io ho tuttora nostalgia della nobiltà del suono della Messa in latino, pur essendo consapevole, anzi convinto, che sia importante capire bene ciò che il sacerdote dice. Oggi abbiamo bisogno di preti con un forte senso della missione. Proprio come san Filippo Neri, che aspirava a imbarcarsi per le Indie, per evangelizzare terre lontane, e si trovò a dire: «Ma le mie Indie l’ho trovate qua».
Energie e volontà spese qui, nelle strade e nelle città difficili in cui viviamo, al servizio degli ultimi e di quelli che vengono dimenticati da tutti, è l’aspetto della missione dei sacerdoti che mi impressiona di più. Per questo è importante il sostegno ai preti diocesani.
♦ CHI ERA DON LUIGI (1925-2009)
Il parroco che preparò generazioni di giovani all’avventura della vita
Lo scorso 19 febbraio, per il terzo anniversario della morte di don Luigi Carletti (1925- 2009), dal 1975 al 1996 parroco a Santa Maria Assunta, la chiesa si è popolata anche di chi al Tufello non ci abita più. Un lungo passaparola ha riunito i “ragazzi” di don Luigi.
L’attuale parroco, don Gianni Di Loreto, ha ricordato la sua «grande preoccupazione di fare apostolato specie tra i giovani, perché voleva veramente dar loro alternative in questo quartiere». I chierichetti, l’oratorio, il progetto educativo – rivoluzionario, nell’Italia della ricostruzione – degli scout, i campi estivi in montagna.
Giovani di allora, come Arnaldo Rossi, non hanno dubbi: «Intendiamoci, qui senza Don Luigi non si faceva niente». «Preparava all’avventura della vita» hanno ricordato altri. E ancora: «La sua voce forte toglieva la paura». Modi vigorosi e generosità, ex partigiano e sportivo, con la febbre per il ciclismo. Si era formato al sacerdozio nel collegio Capranica, fucina della diplomazia vaticana. Ma a quel percorso preferì la vita da parroco, spendendosi per il quartiere dov’era solo “er prete”.
 
Finì anche in cronaca don Luigi nell’inverno del ’56 quando le baracche di fronte alla parrocchia s’incendiarono. Lì c’erano circa 500 famiglie e don Luigi non esitò a salvare dalle fiamme tre bambini.
♦ LA PARROCCHIA DI SANTA MARIA ASSUNTA AL TUFELLO OGGI
Cinque sacerdoti per 25 mila abitanti,  “giovani e anziani sono la priorità pastorale”
L’oratorio ha appena festeggiato i primi sei anni della sua nuova vita. Dopo una fase di chiusura, i giovani del Tufello hanno di nuovo in Santa Maria Assunta un punto di riferimento «dove crescere, confrontarsi e progettare il proprio destino» spiega don Gianni Di Loreto, 44 anni, parroco dal 2005 «per fare un passo avanti rispetto alla mentalità rinunciataria di chi pensa che niente cambi, che studiare non serva».
 
Catechismo e campetti di calcio, pallavolo e basket. Intorno un quartiere dove la droga non smette di mietere vite, e il verde lotta ancora con le discariche abusive. I più piccoli al centro Beato Alberto Marvelli trovano sala computer e cineforum. I più grandi danno vita tra l’altro a due compagnie teatrali, che vanno in scena più volte l’anno. Piacerebbe a Gigi Proietti sapere che ce n’è anche una stabile, I Cerini.
«Ma accanto alle nuove generazioni, direi che gli anziani sono l’altra priorità pastorale » spiega don Gianni. «È importante visitarli casa per casa, portare loro l’Eucaristia, perché spesso sono bloccati in case popolari senza ascensore, o perché costretti nei “condominii-alveari umani” della zona di Vigne Nuove». Per tutti invece funzionano i “centri ascolto del Vangelo” nelle case. E le sante Messe vengono celebrate nei cortili condominiali, specie con la bella stagione.
Anche la carità vede tanti fedeli in prima linea: dagli scout al gruppo San Vincenzo per la distribuzione di pacchi viveri. Poi i volontari dello sportello psicologico, vicini alle famiglie in difficoltà.
 
È recente anche un gruppo famiglie “Giovanni Paolo II”. Così fa parlare di sé l’ultima generazione di abitanti di questa parrocchia storica: fu la prima in Italia dedicata alla Vergine con il titolo di Assunta in cielo, in anticipo sulla proclamazione del dogma da parte di Pio XII, il 1° novembre del 1950 («per dichiarare il destino soprannaturale e la dignità eccelsa di ogni corpo umano, profanato nella guerra e nei campi di sterminio, ma chiamato dal Signore a partecipare alla sua gloria» commentò nel 1997 Papa Giovanni Paolo II).
«E qui nacque uno dei primi gruppi di preghiera di padre Pio, poi diffusi in tutto il mondo», aggiunge don Gianni. La sua missione, con quella del vicario don Domenico Romeo, e dei collaboratori don Fulvio Di Giambattista, il polacco don Lukasz Buczek e il congolese don Didier Dingida Bin Atuba, in un territorio di oltre 25mila abitanti non finisce mai. È per quelle vie, per quei caseggiati e vicino all’altare che li raggiungono le nostre Offerte. Ivan Marchitelli

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