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Commento al Vangelo di domenica 8 novembre. Lo sguardo verso Dio ma i piedi ben piantati “nell’oggi”

Commento al Vangelo della XXXII domenica del Tempo ordinario

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Di Padre Fabrizio Cristarella Orestano
Comunità Monastica di Ruviano

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Cattedrale di Strasburgo, Portale delle vergini sagge e delle vergini stolte (secolo XIII). (Le sagge sono rappresentate accanto a Gesù mentre le stolte cedono alle lusinghe del tentatore. Tutte le vergini indossano il cerchio di verginità secondo i dettami della moda del 1200.

XXXII domenica del Tempo ordinario
Sap 6, 12-16; Sal 62; 1Ts 4, 13-18; Mt 25, 1-13

Siamo alle ultime domeniche dell’anno liturgico e la Chiesa richiama se stessa a quegli atteggiamenti che la possano porre nella storia come realtà con lo sguardo puntato al futuro di Dio, all’eterno di Dio, ma con i piedi ben piantati nell’oggi, un oggi plasmato però dall’attesa del giorno del Signore.

I cristiani, infatti, non possono essere prigionieri di un oggi asfissiante ma sono chiamati a vivere l’oggi nel respiro di un’attesa.

Attendere.

Poveri noi se tutto si consumasse solo nelle coordinate del tempo che noi conosciamo e misuriamo; poveri noi se la storia fosse l’ “unico orizzonte della storia”! La fede cristiana spalanca le porte della storia sul futuro del Dio che viene; Gesù è colui che è venuto e, proprio per questo, è promessa di una definitiva venuta.

La parabola delle dieci vergini, che il solo Matteo narra, è una strana parabola: segue, in un certo modo, le reali tradizioni nuziali ebraiche ma di continuo le trascende, le stravolge … è come se le nozze fossero solo evocate ma per restare il grande quadro che deve dare senso a tutto; le nozze ci danno, insomma, la chiave di lettura che l’Evangelista Matteo ha  a cuore: la relazione sponsale tra il Messia Gesù e la sua Chiesa. Il contesto delle nozze serve a Matteo a dirci di che natura è la relazione tra Cristo e la sua Chiesa, tra Cristo e l’umanità: è una relazione d’amore in cui si dà la vita, in cui ci si gioca la vita, una relazione stabile e per sempre … il ritorno del Signore, la sua venuta, ci dice l’Evangelista, avverrà nel segno delle nozze; Lui tornerà ma come sposo.

Se ci fu una cosa che segnò fortemente i primi decenni del cristianesimo questa fu l’attesa del ritorno dello Sposo, di Cristo risorto! Tanto che i cristiani venivano detti “coloro che amano la venuta del Signore”. Questa attesa, però, si scontrò, da un certo momento in poi, con un problema: il ritorno ritardava; la parusìa(la presenza rinnovata del Cristo) si rivelò non imminente come si credeva. Si dovette iniziare a fare i conti con la morte dei cristiani, con la morte di coloro che avevano sperato con tuta l’anima che Gesù sarebbe ritornato presto e li avrebbe presi con sé.

Se il ritorno ritardava, si dilatava il “frattempo” … si dilatava la storia da dover vivere in questo mondo! Allora il problema è chiaro: l’attesa che si dilata non può e non deve diventare un alibi per vivere un presente mediocre, disimpegnato, senza orizzonti vasti, un presente preoccupato solo di un oggi soffocante ed asfittico. Il ritardo del Signore è appello a vivere il tempo in modo sensato, vigilante, con un atteggiamento prudente, cioè capace di mettere in conto che il ritardo vuole fedeltà!

Credo che questa parabola delle dieci vergini ci richiami ad una riflessione sul tempo, sulla durata. L’uomo è immerso nel tempo come tutto il creato ma con la differenza che solo l’uomo ha coscienza piena del tempo, del suo trascorrere, del suo lasciarsi alle spalle volti, storie e fatti, solo l’uomo è cosciente del suo camminare verso altri volti, altre storie, altri fatti … solo l’uomo percepisce di vivere un oggi con radici in un passato e con il cuore segnato dall’attesa del futuro. Il tempo è il luogo per diventare uomo … l’umanizzazione vuole tempo, vuole durata e, nell’umanizzazione, il culmine è la capacità di amare … e per amare ci vuole tempo … perché? Ma perché, pensiamoci bene, il tempo è la nostra vita; questa, infatti, è un certo numero di giorni, di anni … e se l’amore non spende la vita non è amore!

L’amore, quello vero, infatti, si misura con il tempo, con la durata, con la fedeltà … e questo riguarda i nostri amori, quelli tra noi uomini, ma riguarda anche l’amore per Dio; la parabola delle dieci vergini ci dice proprio questo: la necessità di durare nell’attesa stando pronti, avendo con sé la forza dell’attesa di Lui. Sì, attesa di Lui; ecco cosa Gesù chiede: di attendere Lui e Lui solo! Questo fa parte di quella “pretesa” di Gesù di essere il termine ultimo di ogni nostro amore, anzi la pretesa di essere il primo in ogni nostro moto d’amore. Il prolungarsi dell’attesa è possibilità di una fedeltà che sappia farsi gesto umile e quotidiano, una fedeltà sempre pronta al di là delle imminenze.

L’amore che Gesù chiede non è un’emozione che passa, non è una “stagione della vita”: è la vita!

La parabola non specifica cosa sia quell’olio che le vergini hanno o non hanno; se è chiaro che lo sposo e Lui, il Messia veniente, se è chiaro che le vergini sono la Chiesa sua sposa (ecco perché la sposa non appare per niente!) e nella sua molteplicità, l’olio delle lampade non è detto chiaramente cosa sia … d’altro canto questa è una parabola e non un’allegoria (l’allegoria vuole che ogni elemento del racconto rinvii ad un’altra realtà) …
Credo che qui si voglia parlare solo di una pienezza; dinanzi al Veniente si può essere pieni o vuoti! Insomma è vigilante chi ha vera capacità di attesa, un’attesa nutrita dalla Parola, nutrita dalla vita fraterna, nutrita di atti concreti che rendano visibile l’Evangelo … Le vergini sagge sono tali perché hanno vissuto il tempo dell’attesa fedeli nell’amore, dando al loro amore per Gesù una durata che non si stanca, che non viene meno, che non si ferma divenendo così una “stagione della vita”, hanno vissuto il tempo dell’attesa riempiendosi di vita sensata, una vita nutrita dalla Parola e con lo sguardo fisso solo su Gesù.

L’invito finale della parabola: Ecco lo sposo, andategli incontro! non è allora solo un grido escatologico, non riguarda solo l’ultimo giorno, ma è un invito ad andare incontro a Lui in ogni giorno, facendo di ogni giorno un giorno carico di Lui, proteso verso Lui.

La parabola sottolinea che questo è richiesto ad ognuno nella Chiesa; ciascuno ha la sua parte unica e irripetibile in questa storia; non sono possibili supplenze di nessun tipo; non è possibile prendere l’ “olio” di un altro! Ci sono degli atti di salvezza che solo io posso compiere, che nessun altro potrà supplire a pieno; se quegli atti di salvezza non li compio io, nella storia permarranno dei “buchi”, dei “vuoti” che ritardano il Regno e la sua pienezza; è questo un forte richiamo alla nostra personale responsabilità nei confronti della storia e dell’umanità tutta; non ci sono dei “sì” e dei “no” privati … i nostri “sì” ed i nostri “no” hanno ricadute sulla storia della salvezza! È enorme ma è così! Ciascuno deve fare la sua parte! Se il Regno, che pure invochiamo ad ogni Paterritarda è perché troppi discepoli di Cristo, nella storia bimillenaria della Chiesa si sono sottratti dal dare la loro parte, hanno lasciato dei vuoti …

L’ “olio” è rimando al rapporto con Gesù che è relazione tra cuore e cuore, tra vita e vita; l’olio è richiamo alla luce che Lui dà a ciascuno la possibilità di accendere. Chi non ha la sua luce cammina nella tenebra tanto da restare celato a se stesso ed al Signore (non vi conosco! dice lo sposo della parabola).

La storia ha bisogno di testimoni prudenti, capaci di vivere la vita in un amore fedele che non si stanca, testimoni che custodiscono la luce dell’Evangelo su cui hanno scommesso non per una stagione della vita, ma per tutta la vita.

 

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