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Commento al Vangelo della prima domenica di Avvento, “un tempo essenziale, non di preparazione ad una grande festa”

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Di Padre Fabrizio Cristarella Orestano
Comunità Monastica di Ruviano

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I domenica di Avvento
Is 63,16b-17.19b; 64,2-7; Sal 79; 1 Cor 1,3-9; Mc 13,33-37

Inizia l’Avvento… tempo di particolarissima intensità per chi, discepolo del Signore Gesù, lo sia per davvero perché ne attende il ritorno!

Essere discepoli, infatti, non è solo assumere uno stile di vita, una morale o dei contenuti di fede, essere discepoli è dato dall’aver sperimentato nella propria vita la presenza del Dio fedele che ci amati nel Figlio Crocefisso e Risorto e che sempre realizza le sue promesse!

Culmine e meta di quelle promesse è che Gesù, il Figlio Amato, l’Emmanuele, Dio-con-noi, tornerà alla fine della storia… un’attesa, quella del suo ritorno, che riempie la storia di un modo diverso di essere uomini.

Deve essere dunque chiaro, lo ripetiamo ormai da anni, che l’Avvento assolutamente non è il tempo che ci prepara al Natale! Che depauperamento! L’Avvento è invece – e bisogna ridirlo con forza – il tempo che, ogni anno, deve affinarci nella nostra identità cristiana di uomini e donne che attendono il Signore. Dicevano i primi cristiani: «I cristiani sono quelli che amano la venuta del Signore!».

Questa attesa del Signore non ci fa evadere dalla storia ma ci pone nella storia non da prigionieri della storia ma come uomini e donne viventi in essa con la forza e lo slancio di quell’attesa di Lui. In questo modo i discepoli di Cristo sfuggono dalla tentazione di idolatrare il presente leggendolo come unico orizzonte a cui dar credito ma non evadono il presente perché il Signore lo attende vigilando e questo si può farlo solo nell’oggi, in ogni oggi.

Il Natale verrà alla fine dell’Avvento per farci celebrare la fedeltà di Dio che aveva promesso di esserci per il suo popolo (e dunque per l’umanità tutta per la quale Israele era stato eletto!) e l’ha fatto davvero ed in modo tanto radicale e inimmaginabile che non può non riempirci di stupore. Infatti chi mai avrebbe potuto solo pensare che Dio realizzasse le sue promesse facendosi carne in mezzo agli uomini, uomo tra gli uomini?

Nell’oracolo di Isaia che oggi costituisce la Prima lettura risuona un bellissimo lamento-invocazione: «Se tu squarciassi i tuoi cieli e scendessi!» … ma chi poteva pensare che Dio avrebbe risposto facendosi carne e carne fragile ponendo la sua tenda in mezzo a noi (cfr Gv 1,14)? Chi avrebbe potuto immaginare che Dio avrebbe scelto la via dell’umano, della carne? Gesù di Nazareth fu questa risposta fedele!

Una risposta fedele che ci autorizza ad attendere il suo ritorno che sarà fedele così come fedele fu l’adempimento della promessa… e non solo fedele ma anche eccedente rispetto alla promessa stessa! Allora attendere il Signore è l’habitat del vivere della Chiesa; una Chiesa che non viva più nell’attesa del suo Signore rischia di smarrirsi e di fatto si smarrisce, rischia di insediarsi quale potere tra i poteri, ed è accaduto molte volte (e tanti “stolti” sognano che ancora accada!), una Chiesa che non viva in quell’attesa come sua atmosfera vitale soffoca nei ristretti ed asfittici spazi mondani.

Il tempo di Avvento è dunque un tempo essenziale e non un tempo di passaggio o di preparazione ad una grande festa; è tempo in cui interrogarsi sulle nostre attese e speranze; è tempo in cui verificare se il nostro oggi è vivificato dall’attesa del Signore o è mortificato ed ingrigito dalle attese mondane e dalle piccole speranze che il mondo ci instilla dentro. Il tempo di Avvento ci chiede di verificare la nostra vigilanza.

Paolo scrive ai Cristiani di Corinto che l’oggi di quella comunità, pure con tutti i limiti che l’Apostolo non avrà remore ad elencare, è quello di una comunità di fratelli che vive davvero una vita diventata “altrimenti” determinata dall’ attesa fedele ed operosa del Signore. Quando Cristo Gesù finalmente tornerà bisognerà che Egli ci trovi in questa attesa e così saremo giudicati uomini e donne del Regno.

Il “frattempo” della Chiesa è ben descritto da Marco (che da questa domenica ci accompagna con il suo Evangelo per tutto questo nuovo anno liturgico) nel passo evangelico di oggi … la breve parabola che Gesù narra dice di un uomo che parte per un viaggio e lascia ai suoi servi, che rimangono a casa, la potestà di compiere ciascuno la sua opera … sì, Marco usa questa parola, “potestà” (in greco exusίa) per esprimere che si tratta di cose di poco conto, è un potere-capacità di mettere in essere quelle opere necessarie per la vigilanza, cioè per l’attesa operosa, attiva, feconda del padrone che ritornerà.

Per Marco la vigilanza qui si declina come operosità concreta ma non faccendona e contemporaneamente come sguardo puntato verso quel Padrone che potrebbe tornare d’improvviso. Vigilare è dunque anche avere memoria di Lui, ricordare le sue parole e i suoi “precetti”.

Sulla porta della storia c’è bisogno di un “portiere” che vigili, che attenda, che abbia lo sguardo puntato fuori, sull’oltre, oltre le mura della “casa”. Penso che questo “portiere” possa e debba essere la Chiesa tutta ed ogni discepolo; tutti nell’atteggiamento delle sentinelle chiamate ad annunziare l’arrivo del Signore; per far questo, come le sentinelle, è necessario avere la volonta e capacità di «leggere i segni dei tempi» (cfr Mt 16,3) e soprattutto di essere memoria di un “oltre” verso cui tutta la storia (lo si sappia o meno!) è protesa!

È nostro compito, compito di noi discepoli del Signore; è compito da cui non ci si può sottrarre … se ci si sottrae si vien meno alla parola che il Signore ci ha rivolto prima di intraprendere il suo Esodo: è partito ma tornerà!

Questa certezza, fondata sulla sua parola, ci bruci il cuore di amore e di speranza; ci bruci il cuore di attesa!

Maranathà! Vieni, Signore Gesù!

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