Il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su se stessi: la mia prima patria sono stati i libri.
Marguerite Yourcenar
di Rosaria De Angelis
Quando una diagnosi ti sbaraglia tutte le carte, nasce con prepotenza dentro di te il desiderio di quel luogo natìo. Il luogo del riposo. Il luogo della sicurezza. Non sempre è un luogo fisico, spesso non lo è. È il luogo metafisico dell’incontro con noi stessi, con i nostri desideri, con i nostri sogni. Il ritorno in quel luogo metafisico ci permette di fare un altro incontro…quello con la nostra umanità e fragilità traballanti. È un guardarsi dentro. E poi fuori. Ma prima dentro.
E come per l’etimologia della metafora, questo trasporto di significati ci permette di vivere in potenza ed evoluzione un pensiero. Che poi è un’azione. Oltre che un sentire. Poi un agire, nuovamente, incessantemente. Il luogo natìo che ci permette di crescere, di allontanarci, di fare esperienze, di essere porto dove ritornare. Il luogo natìo abita le stanze del cuore.
Mantenere un contatto e ritornare nel luogo natìo vuol anche dire, secondo me, lasciarsi andare a quell’attaccamento ancestrale. E allora quella sicurezza dei luoghi la sperimenti ovunque, anche in un letto d’ospedale. Anche stando lontano km da casa. Bisogna essere affamati di vita per viverlo quel luogo, per sentirlo sulla pelle e perdercisi dentro. Ci sono, però, zone interne che rimarcano quelle esterne che sono lugubri. Sono zone ibride che ci rendono diversi, non ci rendono noi. Ed è lo sforzo intenso, incessante di un ritorno in una chiarezza fatta di emozioni vive, vere che fanno sentire quel brivido sulla pelle. E lo riconosci anche negli altri quando sono nel luogo altro. Sono diversi. Ferdinando, Rosalba, Giovanna. Nomi di fantasia di miei pazienti. Disturbo borderline di personalità, disturbo bipolare di tipo II, disturbo da attacchi di panico, ansia, isteria e poi abusi sessuali, abbandoni, violenza assistita, dipendenze, tentato suicidio… Non è vero che tutti i pazienti sono uguali. Ciascuno è unico, con una storia unica, con un disturbo unico che si sposa e si poggia nella storia di vita di ciascuno. Violenze, rifiuti, solitudine, dolore, morte, paura e voglia di ricostruirsi. Una voglia intrisa di sangue e dolore.
La lotta e la cura
Ho visto lottare i loro corpi, trasformarsi; la postura cambiare e l’incedere del passo mutare. Menti interessanti, stimolanti dal punto di vista umano e professionale. Non menti banali, dozzinali. Pensieri liberi, ma costretti nella malattia. Ho insegnato loro a riconoscere la melodia del loro corpo e del loro sentire. Percepire il tuo corpo è un’esperienza unica, indimenticabile. Non si può non averla. Conoscere il rumore che emette il tuo disturbo, e distinguerlo dalla melodia del tuo essere è entusiasmante, oltre che curativo. Curare le persone significa partire da un dato incontrovertibile: la loro umanità. Riconoscere in loro, uomini e donne, anche quel bambino deluso, tradito, offeso. Noi siamo quello che abbiamo vissuto, citando l’importanza delle relazioni nello sviluppo normale e patologico, sintetizzato nel concetto di Psicopatologia dello sviluppo di Bowlby. Cosa erano stati loro? Che bambini erano? Che adulti desideravano diventare?
La nuova geografia del corpo
È stato fantastico quando insieme abbiamo tracciato il mutare del corpo, il loro corpo. Sentire sulla propria pelle una nuova geografia…Mai dimenticherò il loro orgoglio: finalmente avevano qualcosa di loro che nessuno poteva storcere o togliere. La percezione di quello che sentivano. Ma quando sei in piena ‘ristrutturazione’ metti dei rinforzi in alcuni punti su cui lavorare: abbellire, rinforzare, abbattere… È sempre un lavoro di sforzi e fatica per entrambi. Un giorno Ferdinando mi ci portò nel suo luogo natìo. Forse una delle più belle sedute di psicoterapia che abbia mai fatto! Quando penso a lui la figura retorica che mi sovviene è quella di un ossimoro: contrastante e includente i più svariati aggettivi del mondo… mi raccontò di un “momento”, durato un paio d’anni circa, in cui aveva sentito la libertà prendere forma sul suo corpo. Un lavoro estenuante. E una sua vecchia insegnante di greco. La relazione di fiducia l’ha salvato in quel momento, dal male che portava dentro, aprendolo ad una consapevolezza nuova: iniziare a dare un nome al suo disagio. Quello era il suo luogo natìo. Aveva sperimentato affetto, legame, sicurezza nelle cure, interesse, amore e nel contempo aveva coscientizzato un sentire diverso: una personale discontinuità della sua persona rispetto ad uno sviluppo che avrebbe dovuto essere normale…
L’incipit, come augurio, a ciascuno di noi è la ricerca del proprio luogo natìo… La costrizione disumanizza. “Perciò la liberazione è un parto. Un parto doloroso. L’uomo che nasce da questo parto è un uomo nuovo, che diviene tale attraverso il supermento della contraddizione oppressori- oppressi, che è poi l’umanizzazione di tutti” (Paulo Freire)… Ritorniamo all’amore, vissuto o desiderato…“Ogni volta l’amore ci salva dalla ferita del mondo.” (Recalcati)