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Risposta alla pandemia: il Piano nazionale di ripresa c’è, la sfida (come sempre) è attuarlo

Innovazione, sviluppo, turismo, cultura, salute, ambiente.... L'Italia chiamata alla "responsabilità" della progettazione e della spesa senza sperperi

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Il presidente del Consiglio europeo Charles Michel con il premier italiano Giuseppe Conte (foto SIR/European Council)

Edoardo Ongaro*Quando a dicembre 2020 sono state alfine superate le resistenze dei governi di Polonia e Ungheria – determinate dall’arrogante pretesa di questi governi di beneficiare di fondi comuni supportati dai contribuenti europei senza rispettare le regole dell’Unione e i principi dello stato di diritto – e approvati in sede europea congiuntamente sia il bilancio pluriennale dell’Unione europea (Ue) fino al 2027 sia la costituzione di un fondo aggiuntivo speciale finanziato per 750 miliardi di euro, si è aperta per l’Italia la sfida più grande. O forse sarebbe meglio dire la sfida più difficile: non è la più grande, perché quella è stata convincere 27 Paesi diversi a condividere risorse e sovranità; è invece la sfida più difficile per noi, perché è quella che così spesso ci capita di perdere, sia come Stato che come cittadini e imprese.
La sfida è quella di attuare ciò che si è programmato, di portare cioè a termine decine di programmi e progetti rispettando i tempi e i vincoli di stanziamento.

Edoardo Ongaro

Molti soldi, tassi bassi. Il primo passo dell’attuazione è stata la definizione del “Piano nazionale di ripresa e resilienza”, approvato il 12 gennaio dal Consiglio dei ministri. Quali sono i principali contenuti? Il piano europeo prevede risorse per l’Italia pari a 209 miliardi di euro (le risorse sono un po’ maggiori poiché a queste si aggiunge un altro fondo Ue già approvato in precedenza), da impegnare entro il 2023 ma con le spese effettive che possono protrarsi fino al 2026 (si noti che queste risorse sono aggiuntive rispetto ai finanziamenti ordinari del bilancio europeo previsti per l’Italia che ammontano a quasi cento miliardi nel periodo 2021-27). Di questi, 65,5 miliardi sono sovvenzioni, cioè soldi dati all’Italia a fondo perduto; gli altri sono prestiti a condizioni agevolate (bassissimi tassi di interesse, restituzione su un periodo di tempo molto lungo).

Sei aree principali. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza prevede di impiegare gli oltre duecento miliardi in sei aree principali, denominate “missioni”. Alla digitalizzazione, supporto all’innovazione e sviluppo di turismo e cultura (prima missione) sono assegnati 45 miliardi; al supporto alla transizione ecologica (a tutti i livelli, dall’efficienza energetica delle attività industriali, trasporti, abitazioni, allo sviluppo dell’economia circolare, l’economia cioè che riusa tutto quanto consuma) quasi 70 miliardi; 32 miliardi vanno alle infrastrutture per la mobilità (ferrovie, strade); a istruzione e ricerca sono destinati 25 miliardi; le politiche per il lavoro, la famiglia e la coesione territoriale riceveranno 21 miliardi; la salute (sviluppo della medicina di base, della telemedicina, dell’assistenza sanitaria) riceverà quasi 20 miliardi.

“Di tutto un po’”. Qual è l’approccio di fondo del piano? Senz’altro copre molte aree, in un certo senso contiene “di tutto un po’”, però si rilevano due chiare priorità: transizione ecologica e digitalizzazione (anche parte importante delle altre quattro missioni includono risorse per ecologia e digitale). I piani nazionali inoltre debbono riflettere il quadro comunitario e le priorità identificate a livello Ue: appunto transizione ecologica e digitalizzazione. Semmai stupisce quanto il piano europeo punti fortemente su queste due aree anche dopo, o proprio a causa, dell’epidemia di Covid, scommettendo sul fatto che la crisi causata dall’epidemia possa e debba essere considerata anche come un’opportunità per ripensare radicalmente il modo di lavorare e di vivere in Europa; una scommessa meritevole ma non facile. Da questo punto di vista il piano italiano riflette semmai una decisione presa a livello comunitario.

Quale governo? Il Piano nazionale di ripresa e resilienza dovrà adesso essere discusso dal Parlamento e con le parti sociali. La versione finale dovrà poi essere approvata dalla Commissione europea e, di fatto, anche dal Consiglio europeo che riunisce gli Stati membri dell’Ue. A quel punto inizierà la sfida più difficile: l’attuazione. Innanzi tutto bisognerà vedere quale governo sarà in carica allora e dotato di quale supporto in Parlamento. Poi bisognerà dare mandato alle singole amministrazioni (ministeri, agenzie, regioni, aziende pubbliche e private) di attuarlo, talvolta con procedure anche legalmente complesse. Superata l’idea peregrina di costituire una struttura parallela di centinaia di tecnici presi dall’esterno per gestire il piano (una “amministrazione parallela”: reclutata come? Con quali poteri e responsabilità di firma? Operante con quali sistemi gestionali?), si porrà invece il vero problema, quello di come usare al meglio le capacità amministrative esistenti e di come integrarle (non sostituirle) con tutte le risorse possibili, per riuscire a gestire bene progetti di grandissime dimensioni e impatto (dalle infrastrutture all’ambiente e alla digitalizzazione).

Antichi vizi italici. In questa fase non saranno solo le limitate capacità amministrativo-gestionali ad essere messe alla prova. Riaffioreranno, temo, anche antichi vizi italici: un certo fatalismo (all’insegna dell’“anche stavolta ci saranno immani ritardi: cosa ci volete fare?”; la risposta ce la daranno gli altri Paesi dell’Ue quando ritireranno i fondi stanziati perché non siamo riusciti a spenderli bene) e una dose di cinismo (all’insegna del “cosa ci volete fare: un po’ di corruzione è endemica!”; l’osservazione è vera e non riguarda certo solo l’Italia, ma la risposta verrà dall’occhiuta attenzione che la stampa dei Paesi del Nord dedicherà a come vengono spesi i soldi comunitari, visto che sono risorse garantite anche dai contribuenti finlandesi, danesi od olandesi, poco disposti a sentire scuse).

Senso di responsabilità. Per affrontare tali sfide, sarà molto utile che tutti coloro che saranno coinvolti nell’attuazione sentano una duplice pressione:
quella esercitata dai nostri partner europei, poco inclini alla tolleranza di certi vizi, e quella, etica e morale, che ci proviene dalle future generazioni di italiane e italiani.
In fondo, è a loro che questo piano, che si chiama Next Generation Eu (“La nuova generazione”), è rivolto; ed è a loro che i tantissimi operatori – di amministrazioni pubbliche, imprese private, società civile – che dovranno attuarlo dovrebbero primariamente pensare quando dovranno attuarlo, e farsi guidare da un alto senso di responsabilità verso i posteri e il futuro, dell’Italia e dell’Europa.

*professore di Management pubblico presso la Open University del Regno Unito
Fonte Agensir

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