Di padre Fabrizio Cristarella Orestano
Comunità Monastica di Ruviano
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IV domenica del Tempo ordinario
Dt 18,15-20; Sal 94; 1Cor 7,32-35; Mc 1,21-28
La liturgia di questa domenica ci chiede l’ascolto di Gesù; un ascolto che deve essere capace di incontrare la parola che Lui è venuto a pronunziare nella storia e sulla storia. «Un insegnamento nuovo», dice la gente di Cafarnao (didachè kainè) e, ricordiamo che kainòs significa “ultimo”, “definitivo”; cioè vuol dire che in quello che dice Gesù c’è una novità che vale per sempre, che vale in modo definitivo per la storia, per l’umanità. Una dottrina (didachè) che non è una filosofia accattivante e ben pensata ma è una forza creatrice e liberatrice con cui bisogna fare i conti in modo vitale, esistenziale. Abbiamo bisogno di questa sua parola definitiva per sterminare il male che ci abita e che prende i mille nomi delle iniquità che abbiamo coltivato, creato e custodito gelosamente dentro di noi! Abbiamo bisogno di far entrare in noi quella parola nuova piena di exousìa, di autorità… Abbiamo bisogno anche noi, come Ezechiele (3,3) di mangiare il rotolo della parola di Cristo perché penetri nel profondo della nostra vita, delle nostre fibre.
La parola di Gesù è una parola definitiva perché pronunziata dal profeta perfetto, quello annunziato nel passo del Libro del Deuteronomio, che è la prima lettura di oggi, nel quale sulle labbra di Mosè è posta una promessa di un profeta grande; una promessa che già Israele leggeva come riferita al Messia.
Marco, di contro, sin dall’inizio del suo racconto, ci dice che l’ascolto di questo profeta grande, del Messia Gesù, è lento, impegnativo, faticoso, non scontato; la comprensione di una parola come quella di Gesù, così “altra”, è costosa ed è esposta anche al rischio di deformare quella stessa parola; conoscere questo Messia Gesù che spiazza, in qualche modo, ogni attesa immaginabile, è un percorso enigmatico, rischioso, fatto anche di tanti “silenzi”. Una delle caratteristiche, infatti, dell’Evangelo di Marco, è quella che gli studiosi, dall’inizio del Novecento, hanno definito “segreto messianico”: l’identità di Gesù, cioè, non va ridetta facilmente dai testimoni; perché?
Un po’ perché certamente, storicamente, erano possibili dei fraintendimenti della missione di Gesù, un po’ – e questa è l’intenzione più profonda di Marco – perché ciascuno deve dare la sua risposta, una risposta vera, meditata; la “parola” che è Gesù va accolta e fatta scendere in profondo sconvolgendo la vita di chi da essa si fa toccare. Questa via Marco la percorre per tutto il suo racconto mostrandoci un Gesù che di continuo chiede il silenzio circa le sue azioni e la sua identità; l’evangelo terminerà perfino con le donne che, ricevuto l’annunzio della risurrezione dal giovane in bianca veste seduto nel sepolcro svuotato, non dicono niente a nessuno perché avevano paura (cf. Mc 16,8). Ricordiamo che i versetti conclusivi di questo evangelo sono di una mano successiva; versetti certo “ispirati” ma nati dall’incomprensione di una finale tanto enigmatica.
Nella pagina di oggi c’è un racconto (è il primo “miracolo” di Gesù nell’evangelo di Marco) in cui questo “segreto” è chiaro; infatti Gesù sgrida lo spirito impuro che grida l’identità di Gesù stesso; lo chiama Santo di Dio, con un’espressione che non ha connotazioni morali: Gesù non è santo perché fa il bene ma perché appartiene totalmente alla sfera del divino. Questo significa «Tu sei il Santo di Dio!». Anche nel Quarto evangelo Pietro dirà lo stesso dopo il fallimento della predicazione di Gesù nella sinagoga di Cafarnao, quando tutti lo abbandonarono: «Da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (cf. Gv 6,69).
Marco ha chiara un’idea: la vera, autentica conoscenza di Gesù non va gridata e non va legata alla forza dei miracoli; lo “sgridare” di Gesù, infatti, si contrappone al “gridare” dell’ossesso. La conoscenza di Gesù non passa né per i miracoli, né tantomeno per la paura che prova il demonio dinanzi alla sua presenza; è una conoscenza che si raggiunge con un lento e serio itinerario di ascolto e di ricerca; è questo un processo in cui bisogna “esporsi” a Lui, alla sua parola, alla sua presenza per lasciarsi penetrare da quel mistero che si svelerà a pieno solo nell’ora della croce. Lì, mentre Gesù muore in croce ̶ scriverà Marco ̶ il centurione romano dirà la verità che, per tutto lo scorrere dell’evangelo, era da tenersi sotto segreto: “Davvero quest’uomo era il Figlio di Dio!” (cf. Mc 15,39). Scriverà Blaise Pascal: «La fede in Cristo è autentica non quando nasce dal miracolo ma in quanto è generata dalla croce». Se davvero lo si capisse e lo si ripetesse più spesso in questo nostro strano tempo in cui si vuole tanta “religione” e poca fede, più miracoli e straordinario che ricerca faticosa e costosa del volto vero del Dio che si rivela nella Parola contenuta nelle Scritture.
In questa domenica, allora, siamo ancora una volta chiamati a metterci dinanzi a Parola e ascolto! Nella vera fede cristiana si gioca tutto lì.
Per la mentalità semitica la parola non è un semplice flatus vocis, un soffio della voce, un soffio che passa, non è un chiacchierare e moltiplicare informazioni e notizie, come ci ha abituato l’attuale prassi di comunicazione malata. La parola, al contrario, è un atto solenne, efficace; è operante e tanto più lo è quanto più grande e veritiero è colui che la pronunzia.
La grande poetessa americana Emily Dickinson (1830-1886) così scriveva: «Qualcuno dice che, una volta pronunziata, una parola è morta; io però dico che è il contrario: proprio in quell’istante che è pronunziata essa comincia a vivere!». Come è vero! E come è vero per la Parola di Dio, per la Parola di Cristo Gesù! Quando questa è detta non si spegne, ma, da allora, comincia a incidere sul male, come una spada potente.
Il racconto di esorcismo, che oggi ascoltiamo dall’evangelo di Marco, ce lo mostra con limpidezza: una volta detta quella parola è tormento per il male, lavora, lotta, vince! Il demonio, infatti, per bocca dell’ossesso, non solo ha un’espressione di terrore circa l’identità di Gesù che è il Santo di Dio, ma si sente colpito e atterrato da Lui: «Che hai da fare con noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci!». Parola che tragicamente potrebbe risuonare anche sulle nostre bocche; sì, potremmo ridirla anche noi: «E’ venuto a rovinarci!». È venuto a rovinare quell’uomo vecchio che vuole stare bene annidato dentro di noi per «salvare noi stessi» (cf. Mc 8,35), per ascoltare solo le nostre stesse parole che non ci mettono in discussione o in lotta!
Lasciamoci “rovinare” da Cristo! Così saremo liberi e salvi! Davvero!