Marco Guerra – Città del Vaticano Il massacro degli italiani uccisi nelle foibe e il conseguente esodo di circa 350mila giuliano-dalmati dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia avvenuto tra la fine della seconda guerra mondiale fino ai primi anni Cinquanta. Per commemorare una delle pagine più drammatiche della storia italiana, dal 2005 ogni 10 febbraio si celebra il Giorno del Ricordo, una solennità civile nazionale istituita con la legge 92 del 30 marzo 2004.
Il riconoscimento degli eccidi
L’iniziativa legislativa è stata il culmine di un percorso di riconciliazione nazionale, iniziato, dopo la caduta del comunismo, con la visita del 3 novembre 1991 alla foiba di Basovizza dell’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Per molti decenni, infatti, gli eccidi della popolazione della Venezia-Giulia e della Dalmazia, da parte dei partigiani jugoslavi del maresciallo Josip Broz Tito, sono stati completamente negati da alcuni settori culturali e ideologici o ridotti a sporadiche vendette contro gli Italiani, accusati a loro volta di aver attuato una italianizzazione forzata, durante il periodo fascista, delle comunità slave presenti nella regione. Quelle terre, che allora rientravano nel confine orientale italiano, avevano visto per secoli, sia sotto la Repubblica di Venezia sia sotto l’Impero Asburgico, la convivenza di popolazioni di etnia italiana, che erano la stragrande maggioranza soprattutto nei paesi e nelle città costiere istriane e dalmate, e di popolazioni di etnia slava (croati e sloveni) più numerosi nelle aree agricole interne. L’equilibrio e la convivenza si ruppero con i regimi e i fatti sanguinosi del Novecento.
Una storia complessa e drammatica
Con la disfatta militare dell’Italia del 1943 ci furono le prime operazioni di pulizia etnica da parte dei partigiani comunisti jugoslavi, ma la gran parte delle persecuzioni e degli eccidi avvenne alla fine della guerra, dopo che dall’area si erano ritirate anche le truppe di occupazione naziste. Dal maggio del 1945, e per diversi mesi successivi, migliaia di italiani – secondo le stime, le vittime variano tra le 10mila e le 15milia unità – furono prelevati dalle loro case, deportati e infine gettati a gruppi nelle cavità carsiche, tipiche dell’area, chiamate foibe. I condannati venivano legati tra loro con un fil di ferro stretto ai polsi e fucilati in modo che si trascinassero nelle cavità gli uni con gli altri. In questi inghiottitoi del terreno finirono persone di ogni credo politico, gli eccidi colpirono anche diversi esponenti del clero cattolico come il beato Francesco Bonifacio, ucciso in odio alla fede nel settembre del 1946 in una foiba presso Villa Gardossi in Istria.
L’esodo
A seguito dei massacri iniziò l’esodo della popolazione italiana che ebbe il suo culmine dopo il trattato di Parigi del 1947 che assegnò l’Istria, Fiume e Zara alla Jugoslavia comunista. Nel giro di pochi anni circa 350mila giuliani e dalmati si riversano inizialmente in campi profughi allestiti in molte località di quella madre patria che era sparita nelle loro terre di origine. Successivamente nelle principali città italiane sorsero interi quartieri dedicati alle comunità di esuli.
Niella Penso, testimone dell’esodo
Per una testimonianza diretta dell’esodo giuliano-dalmata e del significato del Giorno del Ricordo, abbiamo intervistato Niella Penso, consigliere della Società di Studi Fiumani di Roma. Niella lasciò Fiume nel 1948 con la madre a soli quattro anni, ma le tribolazioni e il dolore di quei giorni sono ancora vivi nella sua memoria: “Ricordo bene sia la casa dove abitavamo sia alcuni luoghi della città, la grandissima tristezza fu lasciare a Fiume mia zia e mio cugino che era il mio compagno di giochi, dal punto di vista affettivo fu un distacco enorme”.
L’accoglienza nei capi profughi
Da quel momento ebbe inizio un lungo peregrinare per l’Italia in diverse strutture di accoglienza come per altre migliaia di profughi: “La prima tappa fu Trieste, al silos conosciuto come Magazzino 18 attraverso lo spettacolo di Simone Cristicchi – racconta – ; poi fummo tutti destinati ai vari campi profughi sparsi nel territorio italiano, noi finimmo in quello di Servigliano in provincia di Ascoli Piceno”. “Nel campo vivevamo in baracche senza divisori, dove la vita era in comune – prosegue Niella – c’era molta promiscuità. Molte persone rimasero anni in questa situazione, per i bambini c’era la possibilità di accedere ai collegi gestiti dall’Opera per l’assistenza dei giuliano-dalmati, io fui assegnata a quello femminile al quartiere Eur di Roma”.
I racconti degli eccidi
Pur essendo all’epoca una bambina, Niella Penso ricorda anche il contesto storico e i racconti degli esuli che scapparono dalla loro terra natale: “La maggior parte degli italiani partì dall’Istria e da Fiume perché erano terrorizzati dal nuovo regime, alcune persone avevano vissuto sulla loro pelle le persecuzioni. Al campo sentivo racconti di gente a cui erano spariti i parenti dopo essere stati prelevati dalle loro abitazioni, alcuni di questi erano stati infoibati, altri erano stati mandati nei centri di rieducazione nei campi di prigionia jugoslavi”.
La riconciliazione
Niella Penso punta la sua attenzione sul cammino di dialogo e riconciliazione con le popolazioni croate e slovene facilitato anche dalla comune casa Europea: “Da lungo tempo tutte le nostre associazioni degli esuli – afferma – hanno contribuito a riallacciare i rapporti con i croati e con gli sloveni, c’è un rinnovato dialogo, ad esempio il comune di Fiume ha recentemente installato targhe con i nomi delle vie al tempo dell’Italia nel centro storico della città, c’è un riconoscimento reciproco”. “Il Giorno del ricordo è stato una tappa fondamentale, la legge fu votata quasi all’unanimità dal parlamento e solo grazie ad essa queste vicende sono state conosciute da tutti”.
Fonte vaticannews.va