Home Voci d'inverno Sefora come Mosè: storia di un’adozione

Sefora come Mosè: storia di un’adozione

Dal Centro diocesano per la famiglia ancora una storia relazioni difficili, di legami da sciogliere con il passato e da ricostruire con il presente

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“Si chiamerà Mosè, nome che viene dal verbo ebraico salvare. Allevato in gran segreto dalla sua tutrice, cresce, ignorando la sua origine, finché un giorno la voce del sangue lo spinge a uccidere un egiziano che sta maltrattando un ebreo”.
Erri De Luca

di Rosaria De Angelis

Quando ho pensato a questo momento  ho faticato a trovare subito un racconto di vita da proporvi. Forse perché presa da più e più storie di vita. Ma nell’estrema sintesi, un nome: Sefora, nome di fantasia.
Giunge al Centro una richiesta, si tratta di una ragazzina.
È al primo anno delle medie inferiori.
Mi viene descritta come manipolativa, scostante, iperattiva, insomma non proprio la paziente modello. La scelgo! Sefora sarà mia.
Convoco la famiglia e finalmente la conosco di persona. La madre e il papà avanzavano decisi. Sefora subito dopo di loro. Di lei sicuro non è stata la sua simpatia a colpirmi. Ma una felpa di quelle extra large e cortissime, color aragosta. Il mio “buongiorno”, ricordo che fu interrotto dalla voce ferma e decisa del padre “stai ferma e ascolta la dottoressa”. Restai pure io ad ascoltarmi. Per un attimo mi sentii la Sibilla Cumana. Poi tornai alla realtà. A quanto pare fui l’unica, o forse con me anche Sefora. I suoi genitori sentii di averli persi. Era così stancante parlare con loro ed avere la loro attenzione. Si perdevano in tutto. Interrompevano, per poi chiedere scusa dopo qualche secondo. Si infilavano in tutto. In ogni parola. In ogni gesto. Risatine immature ogni tanto riecheggiavano nella stanza. E ho pensato a Sefora. Alla sua fatica nella gestione di questi comportamenti. Eppure era così calma. Apparentemente. Seduta ed intenta a giocherellare con i lacci della felpa, incurante di tutti i comandi imperanti ed ossessivi dei genitori, più spesso quelli della madre.

Nel mentre della raccolta anamnestica, venivo infastidita, quasi fosse un ronzio, dalla voce, talvolta alta talvolta bassissima, della madre. “Fai la brava”, “Facciamo i conti a casa”, “Abbassa le gambe”, “Lascia i lacci”, “Dille qualcosa tu” rivolgendosi al marito. Il marito, l’unica risposta in grado di dare fu: “Lasciala stare tanto lo sai com’è”. Perché come era? Sefora non sembrava nemmeno essere incuriosita dalla mia presenza. Mi aveva allineata ai genitori. Squalifica completa. Non esistevo, tant’è che nemmeno mi degnava di una sguardo.

Sefora quanti anni hai?
Dodici.
Rispose subito la madre.

Che classe frequenti?
È in prima media dottoressa.
Riprese la madre.

Sefora dov’è l’ interruttore per spegnere mamma? Come si stacca?

Nella risata di Sefora capii di aver guadagnato i famosi 100 punti.
La ragazzina capì subito. L’agganciai! I genitori ci misero un po’. E non perché fosse difficile da capire. Ma perché non ci volevano entrare in quel discorso. Finalmente qualcuno che aveva osato contrastare il potere assoluto della madre. Anche il padre rise soddisfatto. Pure la madre, ma credo più di stizza. Scoprii, in realtà, che l’inviante era la scuola. Gli insegnanti di Sefora erano messi a dura prova dall’atteggiamento della ragazzina.  “Disturba in classe, non presta attenzione e fa distrarre i compagni”. Espressioni ovviamente riferitemi dalla madre. Chiesi di restare sola con Sefora. E così continuammo i nostri colloqui per diversi anni: io e lei. Sefora aveva bisogno di uno spazio tutto suo! Anche con i genitori fu fatto un percorso. Il supporto alla famiglia era necessario, come anche il sostegno alla genitorialità. Sefora mi raccontò di quando arrivò in Italia. Aveva 7 anni. Mi parlò dell’ “altra sua vita”; di quella di prima… Le era stato raccontato da una suora dell’orfanotrofio che dopo due giorni della sua nascita fu messa in orfanotrofio, perché la madre non poteva tenerla e  il papà aveva problemi con l’alcol. Che fu data in adozione ad una famiglia quando aveva circa sette otto mesi, per poi essere “rispedita al mittente”. Non ho ben capito le cause, ma in altre zone al di fuori dell’Italia pare che non sia un caso isolato. Non sapeva dell’esistenza di altri fratelli o sorelle.

L’alleanza
Fare alleanza con un adolescente non è sempre facile. Con Sefora ancora meno. Veniva già da una storia di attaccamento “fallita”. Aveva già sperimentato la precarietà del concetto di fiducia.  Un bambino che si è sentito tradito dalle sue figure di riferimento difficilmente tenderà ad instaurare un rapporto di fiducia con l’altro. Sefora aveva un’altra fatica ancora da compiere, ma che nessuno sembrava percepire come cosa dura. Doveva adattarsi ad una famiglia che di fatto non era sua. Tra gli altri, un fratello anch’esso adottivo e più grande di età che sembrava non facilitarle il compito. Forse era gelosia. O forse altro.

La mano tesa
La mano tesa verso Sefora stava a rappresentare il volerle dare un’opportunità di aiuto. Quella mano però non poteva essere solo la mia, ma tutto il sistema, la rete intorno doveva fare corpo ed avere lo stesso atteggiamento supportivo verso l’adolescente. In realtà non ho mai percepito appieno tutto questo. Un figlio adottivo ha un vissuto diverso. Di fatto non appartiene a quella famiglia, a quel sistema. Non ne conosce nemmeno la storia. Bensì ha una sua storia familiare, fatta certo di ricordi, quando ci sono, di traumi, di abbandoni, di affetti lasciati in un’altra parte del mondo…di origini. Si avverte e si assiste, spessissimo, ad una “riemersione” di tutto questo. Inaspettatamente. Improvvisamente. Tutto ciò si trasforma in una sorta di peso sia per i figli che per i genitori adottivi.

Questi ultimi di sovente non sanno come fronteggiare queste situazioni, avvertendo anche una forma molto intensa di frustrazione. Ci si scontra, quindi, anche con una incapacità gestionale. Anche i genitori vengono sconvolti nel loro equilibrio naturale. Anche loro, come coppia, prima dell’arrivo dei figli erano altro. Come tutte le coppie. Come in tutte le famiglie. Fa parte del ciclo di vita delle famiglie. Avevano un loro equilibrio che è stato bruscamente interrotto dall’arrivo del “nuovo”.Supportare i genitori ha voluto significare dotarli di strumenti atti a consentire loro di esplicitare e viversi la loro genitorialità. Ma farlo nel modo corretto. Senza essere troppo oppressivi con i figli, solo perché questi ultimi vengono da una condizione di deprivazione affettiva. Generalmente i genitori adottivi hanno la percezione che le esperienze traumatiche di un bambino adottato possano essere superate attraverso l’avere. Non è così. I genitori di Sefora questo lo hanno compreso nel tempo. Hanno saputo accogliere l’esperienza traumatica della loro figlia.
L’hanno capita. L’hanno elaborata. “Certo che ti farò del male. Certo che me ne farai. Certo che ce ne faremo. Ma questa è la condizione stessa dell’esistenza. Farsi primavera significa accettare il rischio dell’inverno. Farsi presenza, significa accettare il rischio dell’assenza.” (Il Piccolo Principe) Allenare Sefora al racconto della sua storia di vita. Allenare ad ascoltarsi. A percepirsi. A capire che poteva osare di andare più in là. Con lei il lavoro è stato molto intenso…manifestava contenuti simil deliranti, soprattutto nelle full immersion nei ricordi della sua vita. Quella modalità delirante che ha il sapore di una fuga dal caos…dal dolore…dalla sua stessa esistenza. Nascevano soprattutto dal bisogno di trovare una spiegazione alla sua angoscia. I pezzi mancanti della sua vita. Quei tasselli sparsi per le strade del mondo, li aveva reinventati lei. Ricostruiti così. La sua modalità ovviamente era legata alla sua storia autobiografica.

“Voglio trovare un senso, un senso a questa vita…” (V. Rossi)
…e Sefora il suo senso lo ha trovato, forse non appieno.
Ma costruisce la sua speranza.
Con l’aiuto, stavolta, della sua famiglia!

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