Noemi Riccitelli – Miglior film, miglior regia, miglior attrice protagonista: Nomadland, scritto, diretto e prodotto da Chloé Zao è stata la pellicola simbolo dei premi Oscar di questo 2021, i cui principali titoli in competizione non sono stati (ancora) proiettati in sala.
Gli Oscar, tuttavia, sono stati solo gli ultimi premi ad essere attribuiti al film: già premiato con il Leone d’oro all’ultima Mostra del Cinema di Venezia e due Golden Globe, Nomadland è tratto dall’omonimo libro della giornalista Jessica Bruder, Nomadland – Un racconto d’inchiesta, pubblicato nel 2017.
Il film è disponibile dal 30 aprile sulla piattaforma Disney Plus, ma è stata anche la prima pellicola a vedere le luci della sala cinematografica, dove infatti ha registrato notevoli incassi nell’ultimo week-end, con la riapertura dei cinema qui in Italia.
Fern (Frances McDormand) è una donna di sessant’anni che decide di abbandonare la sua città, Empire, in Nevada, dopo la chiusura del sito industriale presso cui lavorava e la morte del marito Bob: riunisce qualche prezioso ricordo, prende un van e si mette in viaggio.
Diventa, così, una nomade: si ferma di tanto in tanto, compie qualche lavoro temporaneo e stagionale, riparte. Nel suo peregrinare ha modo di incontrare altre persone che hanno fatto della strada, intesa come vero e proprio sentiero di vita, la loro esistenza.
Infatti, guardando il film in lingua originale, non può sfuggire allo spettatore la sottile, eppure fondamentale differenza, che il doppiaggio in italiano annulla, tra le espressioni houseless e homeless, che la protagonista pronuncia.
House è il luogo fisico, l’edificio, in cui una famiglia si ritrova, home è il calore familiare, il sentimento affettivo che la comunione con altre persone, a prescindere dal luogo in cui ci si trova, conferisce: Fern è serena e ferma su questo punto, lei non è una homeless.
Frances McDormand (già premio Oscar per Tre Manifesti a Ebbing, Missouri e Fargo) dà corpo a una protagonista non disperata, ma consapevole e risoluta, custode gelosa della propria intimità e della propria storia: rifugge nuove relazioni e sentimentalismi ad esse connessi, come quella con Dave (David Strathairn), perché sembra che lei abbia già tutto quello di cui ha bisogno in sé e con sé. Questa compiutezza del personaggio si confà alla naturalezza dell’attrice che, senza orpelli, camaleontica, si affida al paesaggio, suo silenzioso e costante interlocutore, confidente discreto: orizzonti senza fini, uno spazio sterminato che può essere spaesante e spaventoso per chi non abbia la stessa decisione di Fern.
Il film reca in sé elementi documentaristici, infatti alcuni degli interpreti incarnano loro stessi, come Charlene Swankie, Linda May e Bob Wells, che hanno deciso di vivere una vita semplice e minimalista a bordo dei loro van, ma la regista Zao non ha intenti di critica e denuncia sociale, quanto quello di mostrare un’altra vasta e complessa umanità che anima la cultura americana, oltre il caos delle metropoli e l’invasiva globalizzazione.
La fotografia di Joshua James Richards e le musiche di Ludovico Einaudi enfatizzano una vicenda insieme personale e collettiva, profonda e sincera, nella quale viaggio non è dimensione di scoperta e ricerca, come altri “road-movie”, ma di definitiva affermazione individuale.