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Nicola Coppola rapito dai briganti

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Matese. Tra moderno e contemporaneo

Alberico Bojano, attento e affidabile narratore del Matese, offre alla la rubrica “Matese tra moderno e contemporaneo”, un suggestivo racconto delle vicende postunitarie che toccarono da vicino le nostre terre e alcuni suoi protagonisti: Nicola Coppola e il suo colono Settembrini, Libero Albanese, Vincenzo Coppola solo alcuni dei nomi di questo nuovo racconto

di Alberico Bojano

Il 15 marzo del 1864 è un martedì. Trascorsa la serata con amici in casa Pitò, don Nicola Coppola, 66 anni, si sta ritirando a piedi accompagnato da un domestico. Nei pressi del suo palazzetto in via Elci, poco oltre il Seminario, sente la moglie e la sorella che dalle finestre gli urlano di scappare, perché ci sono i briganti in agguato. Dopo un vano tentativo di fuga i due sono catturati e condotti a passi rapidi verso l’oscurità della montagna.

Il giudice regio Nicola Coppola appartiene a una delle più facoltose famiglie di Piedimonte.

Ricco possidente, notabile schivo e rispettato, nel clamore degli eventi postunitari don Nicola si è tenuto in disparte, pur essendo di orientamento progressista e dunque vicino ai liberali antiborbonici.

Suoi sequestratori sono i piedimontesi Giangiuseppe Campagna, detto il russo, e Giovanni Civitillo, detto senzapaura, che agiscono su ordine di Libero Albanese, capobanda di Guardiaregia. Nonostante la forte repressione militare, gli effetti della legge Pica e i rigori dell’inverno, Albanese ha stranamente tenuto la sua formazione di una quindicina di uomini al freddo del Matese, spostandosi da Camporuccio verso Arito. Il suo fine è di ottenere dal Coppola un riscatto talmente cospicuo che gli consenta il ritiro dall’attività, su cui da tempo rimugina.

Il terzo attore della vicenda è il Sottoprefetto Filippo Dainelli, un toscano intransigente, attaccato al dovere e fautore di una drastica azione contro il brigantaggio, in contrasto con molti notabili che preferiscono un morbido compromesso.

Dainelli ce l’ha a morte con Libero Albanese, che gli aveva promesso di consegnarsi. Per di più ha poca speranza che i briganti incappino nella truppa che ha subito sguinzagliato nella notte, persuaso che la famiglia vorrà subito pagare senza essere intralciata dalla giustizia.

Il giudice Nicola Coppola

Infatti il domestico rapito è già tornato al palazzo. Donna Teresa Carola, moglie di Coppola, gli dà l’oro che tiene in casa e lui subito, a cavallo, corre verso il luogo stabilito dai briganti. Viene però intercettato dai militi, che sequestrano il biglietto con cui la banda chiede alla famiglia armi, commestibili, un cannocchiale, vari oggetti e la ingentissima somma di 80.000 ducati.

Il giorno seguente Dainelli organizza una corposa forza di Carabinieri Reali, Guardie Nazionali e militi della Guardia di Finanza da inviare sul Matese.

Ma i familiari di Coppola si presentano alla Sottoprefettura e sostengono il diritto di inviare ai briganti il denaro e gli oggetti richiesti pur di salvare la vita del loro congiunto. Tra essi c’è il cugino di don Nicola, l’autorevole medico Vincenzo Coppola, consigliere comunale e già deputato nel 1848 al Parlamento napoletano.

Dainelli è irremovibile ma la perlustrazione di giovedì 17 marzo, che giunge fino a Valle Agricola e Camporotondo, torna a mani vuote. La banda è introvabile.

Invece le trattative segrete condotte da Vincenzo Coppola hanno migliore effetto. Matteo Settembrini, un colono della famiglia che gestisce la masseria a Montecalvo, viene inviato sull’Ariola, dove consegna alla banda seimila ducati. La somma però non è sufficiente. Qualche giorno dopo Settembrini porta alla banda altri cinquemila ducati, che Vincenzo Coppola si è fatto prestare dal ricco Enrico Sanillo di San Potito.

Per sviare le ricerche, manutengoli della banda diffondono a Piedimonte voci contrastanti. C’è chi dice che don Nicola sia morto per gli stenti, chi lo dà prigioniero in Molise o nello Stato Pontificio.

Matteo Settembrini sale per la terza volta sull’Ariola con altri mille ducati del riscatto, ma vuole vedere il suo padrone. Dopo aver camminato per ore, nella notte, incontra don Nicola. È in un fosso, vicino al fuoco acceso, con due briganti di guardia. Ha dolori a una gamba e a un occhio. Settembrini ottiene di rimanere qualche giorno con lui, che gli racconta di mangiare pane, prosciutto, formaggio; l’acqua la ricava dalla neve liquefatta. Ci sono sempre tre briganti a sorvegliarlo, che si danno periodicamente il cambio con altri.

Quando Settembrini rientra, non porta buone notizie alla famiglia: i briganti chiedono una somma pari a quella già ottenuta, cioè altri dodicimila ducati.

È trascorso oltre un mese dal sequestro, e i militari non hanno sortito alcun effetto. Anzi è addirittura il Prefetto di Caserta, Carlo Mayr, che fornisce a Dainelli notizie sui contatti tra l’emissario dei Coppola e i briganti. Il tono del Prefetto è cortese ma fermo. Traspare chiaramente tutta la sua irritazione per il sequestro di un uomo così importante, che si sta trasformando in una beffa per l’autorità.

Dainelli ne è provato. La popolazione collabora con i briganti, così come i notabili di Piedimonte, tutti per la linea morbida della trattativa che la famiglia Coppola porta avanti.

Interrogato da Dainelli, il colono Settembrini svela tutti i suoi movimenti, orchestrati da Vincenzo Coppola che il sottoprefetto, indispettito, vorrebbe arrestare.

Finalmente il 4 maggio l’ennesima perlustrazione intercetta una parte della banda sul monte Tagliaferro. Nel conflitto a fuoco, che si protrae per ore, resta ucciso un brigante, indosso al quale i militi trovano una lettera di Vincenzo Coppola diretta ad Albanese. Gli tagliano la testa, che la manutengola Maria Carmina Valente, appena catturata, è obbligata a portare in città.

Il 17 maggio don Nicola Coppola viene rilasciato sulle montagne di Macchiagodena, nel Circondario di Isernia. Ha trascorso 62 giorni con i briganti  e per gli stenti patiti ha perso la vista ad un occhio. Ma torna a casa con le sue gambe. Torna agli affari di famiglia, agli amici, e tranquillamente invecchia nel suo palazzo, dove morirà a 84 anni.

Un anno dopo il sequestro Filippo Dainelli viene trasferito in provincia di Brescia. Sono i normali avvicendamenti negli incarichi di sottoprefetto.

Resta fitto il mistero su Libero Albanese e i suoi uomini. Molti manutengoli vengono arrestati e condannati. Altri suoi uomini, come Giangiuseppe il rosso, Nicola Verruto, Giovanni senzapaura e Sebastiano Petraglia a fine anno risultano effettivi nella nuova formazione di Andrea Santaniello.

Il capobanda Albanese invece è svanito nel nulla.

Farà la sua ricomparsa sul Matese 16 anni dopo, nell’estate del 1880. Insieme a Cosimo Giordano, il capo dei capibanda matesini, mette a segno un altro proficuo sequestro, e poi scompare definitivamente.

Forse è nascosto a Napoli, oppure è andato a Nizza con Giordano. O forse ha preso quel piroscafo per gli Stati Uniti, meta di tanti suoi conterranei che guardano al Nuovo Mondo come unica speranza per sfuggire alla fame e alla miseria.

E di lui non si saprà mai più nulla.

Per approfondire la vicenda e conoscerne i dettagli, si può consultare lo studio intitolato Il sequestro di don Nicola Coppola giudice regio a Piedimonte d’Alife e pubblicato da Alberico Bojano nell’Annuario 1997 edito dalla Associazione Storica del Medio Volturno.

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