Di Padre Fabrizio Cristarella Orestano
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XXIII domenica del Tempo ordinario – anno B
Is 35,4-7; Sal 145; Gc 2,1-5; Mc 7,31-37
Viene portato a Gesù un uomo che è sordo e che parla con difficoltà, tanto balbuziente da non riuscire ad esprimersi; non è proprio muto, è uno che emette suoni inarticolati; e che sia così lo comprendiamo alla fine del racconto ove si dice che, guarito, parlava correttamente. Siamo in territorio pagano e Gesù, dopo il miracolo per la figlia della donna siro-fenicia, ha aperto il suo messianismo a tutte le genti e Marco si sta compiacendo di mostrarci come Gesù percorra in lungo e in largo il territorio che è fuori dalla terra di Israele…il racconto di Marco è contemporaneamente pieno di particolari geografici, di particolari realistici, ma anche di significati ulteriori… insomma in quel gesto storicamente concreto c’è qualcosa da cogliere: i pagani non hanno la capacità di ascolto, non hanno lo Sh’mà e dunque non ascoltano. Devono ricevere anche loro il comandamento primo che Israele ricevette: Sh’mà, Israel!, Ascolta, Israele! (cf. Dt 6,5 e Mc 12,29); ne devono diventare capaci; poiché non hanno l’ascolto mancano anche della capacità di parlare correttamente, il loro parlare è confuso!
Questa condizione dei pagani è però tante volte anche la nostra condizione di credenti divenuti sordi dinanzi alle provocazioni di Dio e chiusi in certi perbenismi “religiosi” che non hanno più sapore di Evangelo. La scena, dunque, ci riguarda a più livelli. Gesù conduce in disparte l’uomo sordo e balbuziente perché è necessario un rapporto personale con Lui per essere sanati da quell’«avere orecchie e non ascoltare» (cf. Mc 4,9), è necessario, per un vero ascolto di Dio, restare in disparte con Gesù, è necessario far tacere il resto; le folle devono rimanere sullo sfondo e c’è bisogno di un silenzio fato di un guardarsi negli occhi, di un lasciarsi guardare dagli occhi di misericordia di Gesù che è capace di sentire nel cuore il dolore per la nostra sordità e per la nostra incapacità di dire parole di senso.
Per altri miracoli Gesù non ha avuto bisogno di compiere gesti, di usare cose… qui è diverso! Qui Gesù tocca, usa la saliva… farà lo stesso per il cieco (cf. Mc 8,22-26); la sua parola, in questi casi, si accompagna ad un gesto che tocca gli organi coinvolti, un gesto che designa il “luogo” in cui è necessario ristabilire la “funzione”! Ascoltare e parlare, come poi il vedere la luce, sono atti essenziali all’essere uomo ed il miracolo di Gesù vuole e deve toccare lì dove c’è quella povertà e quel vuoto… Marco però non si ferma qui, il miracolo è infatti accompagnato da un gesto, da un gemito e da una parola… Il gesto è il levare gli occhi al cielo perché Gesù sa che l’ascolto è il grande dono del Padre; non è l’uomo che si dà l’ascolto ma è Dio che concede quello Sh’mà che è la radice di ogni Alleanza. Inoltre qui Gesù levando gli occhi al cielo indica da dove viene la sua diùnamis, la sua potenza: viene dal Padre. Solo Lui, per ora, può levare gli occhi al cielo (nell’Evangelo di Luca il pubblicano della parabola è lodato perché non osa alzare gli occhi al cielo cf. Lc 18,13), dopo la Pasqua anche la Chiesa potrà farlo (come Stefano in At 7,55) ma perché Cristo avrà aperto i cieli all’umanità riconciliandola con Dio. Qui, però, per ora, solo Gesù può farlo davvero e con questo gesto rivela anche la sua origine: viene da Dio e da Dio riceve la potenza per sanare tutta l’umanità (ricordiamo che la scena si svolge in territorio pagano!).
Segue però ancora una cosa: il gemito; e questo rivela la sua umanità. Il verbo che Marco usa è il verbo stenázo (“gemere”) che è lo stesso verbo che Paolo userà nella sua Lettera ai cristiani di Roma (8,22-27) quando parlerà del gemito della creazione che attende la redenzione; Gesù geme di fronte al dolore, al male che abita l’uomo, di fronte alla finitudine ed alla fragilità. È come se Gesù, primogenito della creazione (cf. Col 1,15), emettesse per primo questo gemito che fino a quel momento nessuno osava emettere perché era assente ogni speranza. Ora però la creazione può sperare nell’adempimento di quella promessa che il Libro di Isaia aveva preannunziato, come abbiamo ascoltato nella Prima lettura di oggi: Coraggio, non temete! … Dio viene a salvarvi! Ed ora Dio è presente ed in Gesù di Nazaret ridona speranza ai viventi.
Il gemito di Gesù qui è, in qualche modo, il partecipare di Cristo, Figlio eterno di Dio, al dolore della creazione, alla sua incapacità: in un certo senso Gesù emette qui un suono inarticolato, come il sordo balbuziente! Lo farà anche dalla croce dove morirà con un grido inarticolato (cf. Mc 15,37) che pure Marco ci racconta. Il Figlio di Dio è venuto a condividere il nostro dolore, la nostra condizione, i nostri inferni ma per tirarcene fuori. La parola che Gesù aggiunge al gemito è Effatà!. “Apriti!” È l’uomo stesso che deve aprirsi, è lui che deve aprirsi all’ascolto e al parlare. È all’uomo che Gesù dice quella parola di liberazione, è all’uomo chiuso nel profondo silenzio della solitudine che è il non-ascolto, è all’uomo incapace di dirsi, di dire il mondo, di dire Dio: Effatà! È tanto essenziale questo aprirsi che il rito del Battesimo custodisce il rito appunto dell’Effatà in cui il presbitero tocca bocca ed orecchie del battezzato e lo invia così nel mondo con il comandamento dell’ascolto di Dio e con la missione dell’annunzio della salvezza che in Cristo gli è stata donata.
Il racconto di Marco ha poi una conclusione strana, incongrua – sembrerebbe – con il racconto stesso. Gesù ha aperto orecchie e bocca all’uomo e poi comanda di non dire niente a nessuno. Perché? La prima cosa che osserviamo è che il comando di non parlare non è rivolto tanto all’uomo guarito ma a coloro che l’hanno condotto a Gesù (infatti Marco usa un plurale: «Comandò loro di non dirlo a nessuno»). Essi non obbediscono a Gesù e dalle loro parole comprendiamo che quegli uomini non hanno capito bene ciò che Gesù ha fatto: si fermano al meraviglioso e poi parlano di sordi e di muti («Fa udire i sordi i sordi e parlare i muti») e non comprendono che le due cose sono collegate; infatti è la sordità che produce la parola inceppata. Non hanno allora compreso che questo miracolo è un segno e non solo una dimostrazione di potenza e di compassione… ecco che dunque parlano a sproposito, era meglio il tacere. Il comando di Gesù mira a che si parli solo dopo aver fatto vera esperienza di Lui, dopo che ci si è lasciati personalmente liberare da sordità e parlare inceppato; per quegli “accompagnatori” sarà meglio tacere finché Gesù non avrà compito la definitiva apertura del loro ascolto con la sua croce e risurrezione; allora contemplando quel segno supremo sapranno comprendere pienamente gli altri segni che conducono tutti lì, alla formazione dell’uomo nuovo completo e capace di ascolto e di parola libera. Non basta, dice Marco, acclamare Gesù come si acclama il Dio creatore che “fa bene tutte le cose” si deve anche comprendere il senso profondo di questo “bene” che egli offre.
Quelli che avevano condotto l’uomo sordo e balbuziente a Gesù avevano essi stessi bisogno di andare da Lui per essere sanati.