Di Padre Fabrizio Cristarella Orestano
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I domenica di Avvento
Ger 33,14-16; Sal 24; 1Ts 3,12-4, 2; Lc 21,25-28.34-36
L’Avvento non è attesa del Natale! È non solo semplicistico ed infantile dire così, ma è anche segno di una grande debolezza della fede nella coscienza della Chiesa; l’Avvento culmina nel Natale! L’Avvento è tanto di più: è attesa del Signore che ritorna! Il Natale verrà e sarà conforto alla fatica dell’attesa: se è già venuto adempiendo le promesse fatte ad Israele vuol dire che ancora manterrà la promessa e tornerà.
L’Avvento è tempo di esercizio, di preghiera, di riflessione per preparare la venuta del Signore, quella che avverrà alla fine della storia, quella che invochiamo e di cui siamo certi. La parola Maranathà è la preghiera tipica dell’Avvento, ma in verità è tipica della vera identità cristiana, perché si è cristiani se si attende il Signore, se si fa della storia un’attesa impegnata e vigilante di Lui.
La parola Maranathà ci dice contemporaneamente certezza ed invocazione; è una parola in aramaico (dunque la lingua parlata da Gesù e dunque dalla prima comunità cristiana) che troviamo nel Nuovo Testamento nella Prima lettera ai cristiani di Corinto (16,22) nel suo suono originale e che troviamo, questa volta tradotta in greco, alla fine del libro dell’Apocalisse (22,20); essa può avere due significati: Maràn athà (“Il Signore nostro viene!”) oppure Marana thà (“Signore nostro, vieni!”). Dunque, certezza ed invocazione! Certezza perché Lui l’ha promesso ed oggi ascoltiamo questa promessa nel passo di oggi dell’Evangelo di Luca, Evangelo che ci accompagnerà in tutto questo nuovo anno liturgico che oggi inizia. Sì, è certo: Gesù tornerà ed a Lui dovremo consegnare la storia trasfigurata dal suo Evangelo e Lui tutto consegnerà al Padre ed al suo amore… se la sua venuta sarà questo, come non invocarla, come non attenderla, come non sperarla con tutto noi stessi, come non lottare per affrettarla?
L’Evangelo ancora oggi ci parla con quel linguaggio apocalittico che ritrovammo in Marco due domeniche fa: la realtà che conosciamo sarà capovolta dalla venuta del Figlio dell’uomo, tutto sarà nuovo e questa novità dovrà passare attraverso il giudizio del Figlio dell’uomo; un giudizio che Luca ci chiede di prendere molto sul serio: quegli uomini che muoiono di paura vogliono dirci proprio la serietà e la verità di un giudizio con cui bisognerà fare i conti! Bisognerà avere coraggio per comparire davanti al Figlio dell’uomo; mi viene da dire che ci sapranno andare quelli che avranno avuto il coraggio della sequela nel loro cammino storico… quale sarà il criterio netto del giudizio del Figlio dell’uomo veniente? Uno solo: aver seguito il progetto di vita del Crocefisso, l’essere stato suo discepolo ma per davvero… la formula che troviamo in Lc 9,24 ci dice chiaramente quale sia questo progetto su cui tutto si giocherà: «Chi conserva la sua vita la perde e chi la dona la ritrova!». Chi vive così, certo con tutte le lotte, le fatiche e le cadute che possono, anzi devono esserci, si prepara alla venuta improvvisa del Figlio dell’uomo ed al suo giudizio.
Ed allora non bisogna lasciarsi sorprendere impreparati, bisogna stare attenti a non lasciarsi inghiottire dalla vita, a non farsi scorrere addosso la vita; il fare soffoca tutto e questo ci rende incapaci di riconoscere il tempo opportuno per la salvezza, il tempo per dire e ridire con gioia il nostro sì al Signore Gesù.
Domenica scorsa dicevamo che la festa di Cristo Re non deve avere sapore trionfalistico e questo è vero anche per il ritorno glorioso del Figlio dell’uomo. Certamente è vero che quel giorno sarà giorno di trionfo e di un trionfo palese a tutti a differenza della sua vittoria pasquale che non fu palese a tutti e che è conoscibile solo nella fede e resta “visibile” solo nell’amore fraterno nella comunità ecclesiale; questo trionfo finale in potenza e gloria grande deve però essere letto correttamente: assolutamente non significa che Dio alla fine della storia abbandonerà la strada della croce e quindi dell’amore costoso per sostituirla con quella della potenza e magari, come tanti vorrebbero, della vendetta! Vedete, se così fosse, significherebbe – come scrive Bruno Maggioni – che la croce non sarebbe più il centro della salvezza progettata da Dio in Cristo e la sequela del Crocefisso non sarebbe più l’elemento decisivo di una vita umana e sensata, l’elemento decisivo del giudizio di Dio.
È chiaro che, se Dio abbandonasse la via della Croce per sostituirla alla fine, alla venuta del Figlio, con la mondana logica della potenza, darebbe ragione a tutti quelli che per secoli hanno riso della croce, hanno riso dell’amore, a tutti quelli che hanno deriso l’amore perché giudicato debole ed inutile, incapace di dare completa liberazione. No! Dio non smentirà se stesso!
Il ritorno del Figlio dell’uomo – ricordiamolo sempre – sarà il ritorno del Crocefisso, sarà la rivelazione luminosa che l’amore, e nient’altro, è la via della salvezza! Nient’altro!
Se questa è la nostra fede ne scaturiscono parecchie conseguenze concrete; come tutto il Nuovo Testamento pare che anche Luca creda ad un’imminenza della Parusia, di questo ritorno glorioso; noi però sappiamo che ai tempi di Luca e della scrittura del suo Evangelo, si era fatto chiaro che si apriva un lungo tempo della Chiesa, un tempo che si sarebbe prolungato; Luca però ci dice che sempre ci saranno segni premonitori. Quali? Guerre, persecuzioni, dolori, ore di pressura straordinarie e ne ha parlato all’inizio del capitolo. In che senso sono segni premonitori? Lo sono perché ci dicono la fragilità degli equilibri umani e la fragilità delle posizioni di “buon-senso” che gli uomini apparecchiano per sé e per la storia; ogni generazione è testimone di guerre ed ingiustizie, di contraddizioni e miserie; ogni generazione è allora appellata da quegli eventi fallimentari a cogliere il presente come urgente, decisivo e questo non solo perché è breve (il che è anche vero!) ma perché ogni giorno ci dà occasioni per vivere la sequela, per vivere i nostri sì al Crocefisso; le occasioni vanno colte perché passano e non tornano più… il sì che posso dire oggi non è il sì che potrò dire domani… intanto certe occasioni saranno state scavalcate e perdute per la mancanza di vigilanza.
Luca, in tal senso, ci invita ad alzare la fronte, a volgere lo sguardo al Figlio dell’uomo, al Crocefisso Risorto che torna. Così non smarriremo la speranza! La storia a volte sembra un tronco secco che non può più dare vita, ma proprio lì, nella storia, riapparirà il “Germoglio”, come ha cantato Geremia nel suo oracolo che oggi è la prima lettura. Se si fissa lo sguardo al “Germoglio di Iesse” (cf. Is 11,1) che Dio farà apparire, allora la speranza rifiorirà e l’attesa metterà in moto la vita dei discepoli, l’attesa verrà riempita da quei sì a «perdere la propria vita» con amore che è il cuore della sequela di Gesù. Solo l’amore salva la storia, oggi e quando Lui tornerà. Checché ne dicano i profeti di sventura, assassini della speranza, che seminano morte e che non possono più dirsi discepoli di Cristo; gli assassini della speranza non sanno celebrare l’Avvento e non possono; gli assassini della speranza si confinano in un oggi senza uscite e senza orizzonti, un presente che li soffoca e vorrebbero confinare tutti gli altri in quei recinti di morte! A spinte mortifere di questo genere si deve resistere e restare saldi nella fede e nella speranza (cf. 1Pt 5,9).
Beato Angelico (1395-1455): Giudizio finale (1450-1455), (part. del Trittico custodito a Roma, Galleria Nazionale di Palazzo Corsini)