Noemi Riccitelli – Leone d’argento all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, menzione speciale del Premio cattolico internazionale Signis e, infine, il recentissimo ingresso nella short list dei 15 migliori film internazionali in corsa per gli Oscar 2022.
Paolo Sorrentino, già premio Oscar per La Grande Bellezza nel 2014, scrive e dirige È stata la mano di Dio, un film che unisce memorie personali e miti e riti partenopei, in un intreccio emotivo vero.
La pellicola è uscita al cinema a fine novembre, ma è disponibile dal 15 dicembre su Netflix.
Napoli, anni ’80. Fabio Schisa, per tutti Fabietto (Filippo Scotti), vive con la sua famiglia a Napoli: il padre Saverio (Toni Servillo) è un impiegato di banca, la madre Maria (Teresa Saponangelo), casalinga, è una donna entusiasta e genuina.
La famiglia Schisa è una tradizionale famiglia mediterranea, con momenti di condivisione e tensione che sembrano rappresentazioni teatrali e il giovane protagonista sembra essere il classico adolescente un po’ confuso, alla ricerca di sé.
Tuttavia, un giorno, un grave incidente interrompe l’idillio familiare e per Fabietto inizia, ora sì, un vero percorso di crescita e riflessione su sé stesso.
Una carezza a Napoli e a sé stesso, questo film di Sorrentino.
L’inquadratura iniziale di È stata la mano di Dio è una bellissima panoramica sulle acque del golfo di Napoli (enfatizzata anche dalla brillante fotografia di Daria D’Antonio): un azzurro intenso che poi si ritrova nei vessilli cerulei al collo dei tanti tifosi napoletani che inneggiano a Maradona, neo-acquisto della squadra di calcio partenopea.
Sorrentino, infatti, evoca il calciatore simbolo di una generazione nel titolo del suo ultimo film, ponendolo, sembra, al centro della sua nuova riflessione, ma in realtà il fuoco è altrove.
Per quanto il personaggio risulti importante all’interno della narrazione, esso è solo uno dei satelliti che vanno a comporre, a poco a poco, la corolla del pianeta personale del giovane protagonista, cui egli stesso sta cercando una definizione.
Fabietto è l’alter ego di Paolo Sorrentino stesso, che racconta alcuni suoi episodi di vita, dai più genuinamente divertenti, iconici, ai più dolorosi, in cui si alternano personaggi unici, esistenze artistiche, irriverenti, autentiche.
Tra tutti, si distinguono la zia Patrizia, interpretata da Luisa Ranieri con una performance struggente, che è uno dei personaggi chiave del film.
Bella e sensuale, Fabietto la definirà la sua “musa”, ma non semplicemente per la sua avvenenza, ma perché nella sua follia, riesce ad essere la più consapevole e vera, colei che riesce a cogliere l’intimità di suo nipote.
Ancora, la Baronessa (Betty Pedrazzi), solo apparentemente personaggio sostenuto e altero, rappresenta un’altra figura decisiva per il giovane Fabio: con la sicurezza di donna d’esperienza e la delicatezza di una madre, tra una massima e l’altra, aiuta il protagonista a centrare le priorità di giovane ambizioso, lasciando da parte il vuoto e la desolazione.
Il giovane Filippo Scotti, dal canto suo, offre allo spettatore uno sguardo sempre aguzzo e sognante, con cui è facile entrare in complicità, suscitando tenerezza e incoraggiamento.
L’attore, non a caso, ha ricevuto il Premio Mastroianni alla Mostra del Cinema di Venezia.
Tuttavia, il cast tutto merita un plauso: gli attori, eclettici ed estrosi, rimangono impressi nelle loro vivide ed espressive rappresentazioni: oltre ai già citati, ci sono Renato Carpentieri, Massimiliano Gallo, Enzo De Caro, Dora Romano.
I film di Paolo Sorrentino si distinguono tutti per sceneggiature poetiche, costellate di espressioni e immagini sublimi, che sono diapositive di sentimenti belli e terribili insieme, che sappiamo di possedere e provare, e che quindi riconosciamo.
È stata la mano di Dio è un mosaico di tutto ciò, soprattutto per chi conosce e ha vissuto Napoli: il San Gennaro un po’ ieratico e un po’ profano, o’ munaciello, un lampadario da sala meraviglioso sprofondato in un palazzo decaduto, Maradona, una donna anziana, in pelliccia, che mangia vorace la mozzarella… Decadenza, tripudio, voluttà, rassegnazione.
È Napoli, con tutta la sua anima, la Napoli che canta anche Pino Daniele sul finale del film, chiudendo così a cerchio l’iniziale inquadratura del Golfo, mentre il giovane Fabietto lo ascolta al suo walkman, sognando di fare il cinema «perché la realtà non mi piace più».