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“Un difficile equilibrio, come sui tacchi a spillo”: storie di uomini che non amano “fare i padri”

Continua la rubrica "Voci d'Inverno" che raccoglie storie vere che arrivano presso il Centro diocesano per la Famiglia "Mons. Angelo Campagna": in questo luogo ascolto e accoglienza sono i primi passi; poi le soluzioni. Condividerne le storie su Clarus è anche per motivare coloro che vivono simili disagi a cercare una strada e una speranza

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Noi siamo quelli che restano in piedi
e barcollano su tacchi che ballano
Francesco De Gregori

di Rosaria De Angelis

Quante volte ci è capitato di restare, non per forza intrappolati, ma restare bloccati lì. Quante altre volte ho assistito a pazienti bloccati, lì, nella medesima condizione persino dopo anni. È come immortalare un corpo anche quando vorresti andare. Ma non sai dove.
E ho pensato a Michele (nome di fantasia).
Un uomo giovane. Quando è venuto da me aveva circa 46 anni. Distinto. Molto curato nell’aspetto e con modi molto gentili. Delicato.
Viveva una crisi coniugale, almeno così si è espresso lui. Padre di due figli, la prima di 10 anni e il secondo di 7 anni. La moglie era una donna indipendente economicamente. Forse tra i due il potere economico forte era rappresentato da lei. Proveniva da una famiglia molto abbiente.

Alla mia domanda del perché fossimo lì, mi rispose con un “racconto” della sua vita. Voleva una “spiegazione” da me, che ovviamente non diedi, ma ci ragionammo…
A quel primo incontro sono seguiti incontri quindicinali per circa due anni e mezzo. Ricordo che prima di ogni incontro vivevo sempre una forma di pesantezza…facevo fatica a reggere gli incontri. E capii il perché.
Lui portava la pesantezza dei figli, non perché non li volesse, ma perché non tollerava l’idea di “sentirsi padre”. Aveva immaginato il suo futuro diversamente e così, invece, si sentiva mancare il fiato. Diventava claustrofobico ad ogni frase, ad ogni ricordo, ad ogni pensiero di progettualità…

Quanto può essere complicato non scegliere nella propria vita? O meglio, quanto può essere complicato non saper scegliere cosa ci fa stare bene?
È il subirla la vita che poi appesantisce…
Essere padre è un ruolo oltre che una gioia. E lui si sentiva diviso a metà. Si sentiva incastrato in questo matrimonio. In questa paternità.
Spesso mi è capitato di entrare in relazioni e scorgere un certo “formalismo”.
La moglie non deve sapere. Il marito non deve capire. I figli non sapranno mai.

“Ma è mia moglie, dottoressa!”

Questo discorso lo avremmo ripreso…più in là.
Quando si falsifica il concetto di realtà difficilmente si può tornare indietro.
Persone realizzate lavorativamente parlando. Bei lavori. Bella casa. Bei figli. Ma tutto costruito in un mondo fantastico. Nulla era veritiero.
Come ci si sgancia da tutti questi meccanismi?
Se forzi il principio di realtà, secondo me, non puoi sganciarti.

Mi capitò di incontrarlo fuori dalla stanza di terapia, era con la sua famiglia al completo.
Ci guardammo. Non ci salutammo. Io non saluto mai i miei pazienti al di fuori, a meno che non siano loro i primi a farlo. Non è per darmi importanza. È perché non vanno messi  nella condizione di doversi far chiedere da chi sono accompagnati: “chi è?” Oppure “come la conosci?”.

Mi capita di sfiorare le vite al di fuori dello studio. È una sensazione di stranezza sicuramente.
Comunque Michele non mi salutò. Lì aveva un altro ruolo.
Osservai, mio malgrado, la sua pesantezza di quel ruolo.

Come poteva “mia moglie, dottoressa!” non cogliere quel velo, e neanche troppo, di stanchezza, di oscurità, di silenzio? Quel velo che poneva in una distanza siderale la coppia.
Quando si lavora su se stessi bisogna trovare il coraggio di guardarla quella verità che urla dentro. Bisogna porsi in ascolto. E dare voce.
Se zittisci, non sentirai…

Michele come Luca (nome di fantasia) o come Anna (nome di fantasia).

Si attivò un parallelismo nel confluire dei miei pensieri. Mi sovvenne una espressione importante che utilizzò Luca “mi sento soffocare, ma non riesco a reagire. Delle volte ringrazio mio figlio. È per lui che sono qui. Ed è per lui che riesco a scaricare la mia angoscia quando vengo”.

“Luca, come farà quando suo figlio sarà guarito dalle sue paure e non dovrà più venire quì? Ci ha pensato?”

Quando la paura irretisce, fa danni. Ingloba. Fagocita.
Luca veniva a “vomitare”, letteralmente, le sue angosce quando accompagnava il figlio…usava il dolore del figlio come “cavallo di Troia”.
Si scaricava. Si ricaricava. Tornava alla sua vita…nel ciclo infinito di ritorno.
Avevo quasi assunto un ruolo su di lui, rappresentavo il suo valore apotropaico. Ero il suo amuleto. Bisognava staccare.

Al di là delle storie personali, dei dolori, delle ovvie differenziazioni tra i protagonisti che porto nella condivisione con voi, il collegamento che accomuna tutti è il disagio esistenziale. Le paure. Le solitudini. Le angosce. Gli amori perduti. O quelli mai avuti.
Pur di fuggire le nostre paure, le personifichiamo. Le trasformiamo e le identifichiamo in altro. Così sembrano gestibili.

I tacchi che ballano…e gli strappi sui sassi.
Nel girotondo del ballo della vita spesso si inciampa, si cade, ci si ferisce. Ci si rialza.
“I tacchi che ballano” è un’ immagine a me particolarmente cara, perché mi rimanda l’idea di un momento in cui tutto è incerto. Un momento in cui si sta perdendo l’equilibrio. In cui le paure fanno capolino. Si deve agire, o si va giù sui sassi, oppure si ha il coraggio di osare per un nuovo “passo”.

Credo che chiunque si sia trovato un momento della sua vita su tacchi che ballano. Qualcuno ha osato. Qualcuno, invece, soccombe a se stesso.

Michele, sei su tacchi che ballano?
Su tacchi che ballano? Che significa dottoressa?
Ricordo ancora la mia risata alla sua domanda. Dovette pensare che stavo perdendo il senno. Poi però rispose: “Mi sento su tacco a spillo 12”.
In qualunque momento della sua vita chiunque si sarebbe voluto sentir dire di stare attento a non cadere. Io lo invitai a lasciarsi andare. Forse si sarebbe fatto male. Ma di sicuro sarebbe planato in un luogo dove avrebbe incontrato me, seduta e ad attenderlo.

Riuscì a scendere dai tacchi, finalmente.
E ritrovai seduti di fronte a me: lui e sua moglie, Rosa.
Michele fece un atto di coraggio. E anche un atto di fede. C’è un momento nella vita in cui devi poterti fidare di chi ti conduce. O sarai perso.
Credo che la loro storia d’amore cominciò quel giorno, o forse prima, quando lui svelò alla moglie il segreto dei suoi appuntamenti ogni quindici giorni… quando veniva a “chiedere il perdono” alla sua coscienza nei nostri incontri.

“È che mi chiedevo se la più grande fatica è riuscire a non far niente
a lasciare tutto com’è, fare quello che ti viene e non andare dietro la gente” (De Gregori)

Spesso sono scettica sulle “colpe” che un paziente attribuisce al rispettivo partner, o al genitore, o ad altri.
Ho sperimentato che poi incontrare il coniuge, o il genitore, mi ha dato la possibilità di osservare che la descrizione fattami non corrispondesse per nulla. Oltre al fatto di restare completamente sbalordita si è fatta strada dentro di me una considerazione: quanto il paziente non fosse in grado di fare una descrizione oggettiva dell’altro e della sua “presenza” nella relazione con l’altro? Quanto non riuscisse a vedere i suoi “agiti” all’interno di quella relazione specifica? O ancora, quanto fosse effettivamente consapevole di tutto ciò?

Attenersi a fatti concreti, ad esempio, vuol dire investire in una terapia di coppia. Ovviamente non è scontato per tutti. Ci sono, poi, casi in cui non si può, non si deve…ma non era il caso di Michele.

“È finita la notte
spegni la lampada fumante
nell’angolo della stanza.
Sul cielo d’oriente
è fiorita la luce dell’universo:
è un giorno lieto.
Sono destinati a conoscersi
 tutti coloro che camminano
per strade simili.” (Tagore)

Comincia il giorno nuovo per la coppia nella condivisione. Per Michele e Rosa cominciò. Un nuovo cammino. Un cammino di conoscenza reciproca. Non è possibile per un terapeuta ricostruire la storia di vita del paziente in modo veritiero, completo. Ci sono, infatti, alcuni momenti fatti di “sublime silenzio” da parte del terapeuta. È un silenzio costruttore. È un silenzio edificante. Permette la ripartenza.

Mi si palesa l’immagine plastica della scena della partenza. Petto in fuori. Allineati. Il nastro si toglie…via…si parte! Così fu per Michele e Rosa, per Luca o per Anna.
Fu ed è così per tutti i miei pazienti. Si arriva al nastro della vittoria, raggiungendo il benessere…si parte da un punto e si sale la china. La terapia è sicuramente un percorso doloroso. Ma necessario.
Tutti loro hanno trovato il loro equilibrio e io sono sempre sul nastro di partenza, mano nella mano con il mio paziente di turno…vite diverse. Relazioni uniche che lasciano sempre qualcosa di unico nella mia vita.

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