Federico Smidile, ha ripercorso la storia delle elezioni dei Presidenti della Repubblica Italiana ricordando tensioni politiche, numeri, nomi, accordi o scontri tra le parti politiche… Lo fa passando in rassegna rapidamente, ma senza tralasciare la puntuale cronaca, i momenti essenziali di ogni passaggio di consegne…
Nato a Roma, Laureato in Storia contemporanea alla Sapienza con Fausto Fonzi, Federico Smidile lavora come assistente parlamentare del Senatore Gregorio De Falco. Ha ricoperto diversi incarichi sia nell’ente provinciale di Caserta che alla Camera dei Deputati
di Federico Smidile
1948-1962: Einaudi, Gronchi, Segni
L’autocandidatura di Berlusconi fa tremare molti per il potere di “seduzione” che l’ex Cav. potrebbe avere nei confronti di “peones” disposti a votarlo in cambio di qualcosa di prezioso (ricandidatura? Lavoro?).
Sarebbe il primo caso di Presidente eletto non potendo contare in partenza almeno sulla maggioranza assoluta dei grandi elettori. Di solito il voto segreto favorisce l’abbattimento del designato ma non è mai capitato il contrario. E sarebbe molto grave dato che si avrebbe un Presidente dichiaratamente avversato da una parte politica, in una fase critica e che vede un Governo di larghe, sofferte, intese.
Non che le cose siano mai state facili in passato. I numeri e la memoria aiutano (per approfondire ci sono tantissimi libri che possono essere trovati e letti). Facciamo un po’ di storia a puntate…
Nel 1948, subito dopo il trionfo elettorale della DC del 18 aprile che aveva dato allo Scudo crociato la maggioranza assoluta dei seggi nelle due Camere, maggioranza rafforzata dall’inclusione dei “laici” (liberali, socialdemocratici e repubblicani) nella formula Centrista, il candidato del Governo, l’autorevole Ministro (monarchico) Luigi Einaudi ottiene al 4° scrutinio 518 voti (maggioranza assoluta 451) mentre un altro grande Monarchico come Vittorio Emanuele Orlando, sostenuto dalle sinistre, arriva a 320. C’è dunque un confronto molto forte tra gli opposti schieramenti esacerbati dallo scontro elettorale appena terminato (siamo a maggio).
Nel 1955 si torna a votare. È passata la bufera della “Legge truffa”, nessuno pensa alla rielezione di Einaudi (anche se alla fine il Presidente uscente riceverà 70 voti) e si vuole eleggere un democristiano. Si arriva ancora una volta al quarto scrutinio, ma stavolta il risultato è più ampio, essendo considerato Gronchi uomo di sinistra (DC ovviamente). Per questo il nuovo Presidente riceve 658 consensi, nei quali si contano anche quelli dei socialcomunisti, al momento ancora alleati. Certo, la storia è strana dato che nel 1960 Gronchi sarà il padrino del governo più a destra della nostra storia, quello di Tambroni, che sopravvive per alcuni mesi grazie solo ai voti del polo escluso, i fascisti (di norma quando un Governo otteneva la fiducia grazie a quei voti si dimetteva). La storia sa fare molta ironia.
Nel 1962 la politica è cambiata. I socialisti sono al Governo, con la formula del centro-sinistra che crea illusioni ed allarmi. Proprio per chetare le paure della destra DC (e della Chiesa e degli USA), Moro ottiene che venga eletto un altro DC, ex Presidente del Consiglio, e noto conservatore: Antonio Segni. Qui il confronto è aspro. Si arriva al quarto scrutinio e Segni ottiene solo 15 voti in più del quorum necessario: maggioranza assoluta 428, Segni 443. Il secondo votato, il leader socialdemocratico Saragat, raggiunge la ragguardevole cifra di 334 suffragi, segnalando una pericolosissima divisione che avrà i suoi effetti nell’azione, ambigua e pericolosa, dello stesso Segni contro il centro-sinistra. Nel 1964 si sentiranno tintinnar le sciabole e si arriverà allo scontro tra Moro, deciso a portare avanti il centro-sinistra (sia pure annacquato rispetto alle speranze) e Segni che, arriva a minacciare un governo militare (De Lorenzo). Si afferma che la tensione sarà talmente forte da portare Segni all’ictus che lo avrebbe costretto alle dimissioni pochi mesi dopo.
Saragat, Leone, Pertini. Dalla presidenza notarile a quella imperiale
Eccoci dunque ad una nuova elezione nel 1964. Si pensa a Fanfani, primo Presidente del Consiglio di centro-sinistra ma la sua personalità politica ed umana gli aliena molti consensi.
Le votazioni, per la prima volta, vanno oltre il 4° scrutinio, si supera addirittura Natale. Il 28 dicembre, finalmente, Giuseppe Saragat raggiunge quota 646, mentre i comunisti votano scheda bianca (un modo per non opporsi). Per la prima volta un leader politico, sia pure di un piccolo partito, sale al Quirinale. Una Presidenza un po’ dimenticata mentre il centro-sinistra si spegne lentamente e “equilibri più avanzati” ancora non avanzano al contrario di una società che vive il 1968, l’autunno caldo, Piazza Fontana.
Il Quirinale non aiuta nemmeno la riunificazione socialista, anzi il ruolo super partes di Saragat fa perdere al PSDI l’unica vera guida che avrebbe potuto evitare di trasformarlo in quel piccolo comitato d’affari che è poi stato, con Tanassi e Pietro Longo.
Nel 1971 si afferma ormai il principio dell’alternanza. Tocca ad un DC. Il centro-sinistra è in crisi, vi sono stati Governi centristi ed anche il Movimento sociale è entrato in equilibri sempre più critici. Ancora una volta Fanfani punta al Quirinale, stavolta da destra, ma fallisce. Si arriva al massimo numero di scrutini mai registrato prima (e dopo): 23 (nel 1964 erano stati 21). Ancora una volta si rischia di passare il Natale a Montecitorio. Invece il 24 dicembre, grazie anche ai voti del MSI, viene eletto l’avvocato Giovanni Leone, già Presidente del Consiglio e Presidente della Camera. Come per Segni la maggioranza è risicatissima: Leone ottiene 518 voti, 13 in più della maggioranza assoluta. Il voto fascista è quindi decisivo per superare quella soglia. La cosa non aiuterà Leone nel suo settennato, che pure oggi è considerato quello costituzionalmente più corretto. Nenni, leader del PSI, ottiene 408 voti. Gli anni successivi saranno quelli del terrorismo, delle bombe, dello scandalo Lockheed e poi del compromesso storico, anni difficilissimi che esporranno Leone a critiche sempre più violente (e spesso ingiustificate) che lo porteranno a dimissioni anticipate e dolorose nella primavera del 1978.
Il 1978 è anno ben noto. Il rapimento di Moro e la sua uccisione devastano la politica e fanno perdere la persona che era designata al Quirinale, proprio per portare avanti il compromesso storico, che invece verrà cancellato l’anno dopo. Anche qui l’elezione non fu facile. Ci vollero ben 16 scrutini prima che emergesse la nobile figura di un socialista di seconda fila ma ben noto: Sandro Pertini, Presidente della Camera dal 1968 al 1976 e resistente DOC (832 consensi). Una figura ancora oggi amatissima ma che ha in realtà provocato un primo cambiamento nella interpretazione della Presidenza della Repubblica. Da lui in avanti, con parziali ritorni indietro, il Capo dello Stato si sentirà libero di usare un potere non vietato ma non codificato dalla Costituzione: quello di esternazione con un rapporto sempre più diretto coi cittadini. Pertini nella sua semplicità apparente salta le mediazioni politiche e mette in crisi le liturgie consolidate.