“Quando un evento traumatico scuote quelli che erano stati fino ad allora i fondamenti della sua esistenza, un individuo subisce una tale scossa da perdere ogni interesse per il presente e il futuro e da rimanere assorbito psichicamente dal passato in maniera durevole”.
Freud, Introduzione alla Psicoanalisi
di Rosaria De Angelis
I nubifragi dell’anima
Tutti noi abbiamo alle spalle un nubifragio.
Ma come si guarisce dalla frammentazione di sé? Cosa è questa frammentazione di sé? E il trauma?
Quando parliamo di trauma dovremmo tutti tener presente che ha una sua specifica eredità e che continuerà ad invadere, nel vero senso della parola, il corpo, la mente, la vita dei sopravvissuti anche dopo anni.
Essendo immersi in questo clima di guerra, il primo pensiero è andato al “dopo” la guerra, ai sopravvissuti che ci sono e che ci saranno, ma come si sopravvive ad un trauma? Cosa succede? Il parallelismo che mi appare in modo semplice è dato da storie di vita agli antipodi, ma caratterizzate da una ricostruzione di quei frammenti indissolubili che ciascuno si porta con sé. La storia di un bambino abusato e la storia di un rifugiato di guerra. Cosa possono avere in comune? Sicuramente la frammentarietà, che farà in un modo o in un altro, sempre parte di quelle vite. Questo articolo vuole essere un omaggio al coraggio di quei bambini e di quelle persone che si trovano a dover ripartire sempre, ogni giorno e ogni istante della loro vita. E che ce la fanno sempre. E che hanno una marcia in più.
Quei frammenti, di storie, ogni tanto emergevano nelle loro vite. Sembrava insensato per alcuni, perché ormai era passato “il brutto”. “Devi elaborare”. Mi è stato condiviso, da ambo le parti, che spesso è venuto loro ripetuto nel tempo che dovevano farcela. Molte volte ho ritenuto vero che il farcela o il non farcela tranquillizza o indispettisce chi vive intorno…come se dovessero subito elaborare e buttare nel dimenticatoio quanto accaduto. Perché non se ne deve parlare: troppo forte. Essi, quindi, non solo hanno il compito di “farcela”, devono pure evitare di condividere. Certo, tante volte la società chiede l’impossibile.
Anna è stata abusata dal cugino, prima, dal padre poi. Ha trovato il coraggio di raccontare del padre. Di fatto è stata tolta alla famiglia. Il padre è nella sua nazione. La madre in una struttura per malati psichici. Adesso, appena maggiorenne, la società vuole che elabori in fretta. Non è un fatto insolito che Anna si insinuasse nei miei pensieri. Era una paziente insolita, certo fuori dall’ordinario. Una di quelle vite e di quelle storie che tra l’altro ti restano attaccate addosso, sulla pelle.
Il Sù, è l’incipit delle nostre storie. Quando parliamo di elaborazione, parliamo intrinsecamente di risoluzione. Risoluzione di quell’evento. Che poi è come una matriosca. Più apri e più trovi, tutto incastrato, o nascosto.
“Ascolta bene dottoressa”, “Mi senti?”
Per personificare la mia narrazione vi faccio due nomi, Anna e Luigi, (nomi di fantasia).
Anna, la bambina abusata. Luigi, il ragazzo che proveniva da una Paese straniero in guerra.
Una persona che è stata trafitta da quell’evento avrà compromesso, sicuramente, l’esame di realtà e la regolazione dei suoi affetti. Questo solamente da un punto di vista cognitivo. Gli altri aspetti della persona, il livello somatico e quello relazionale presenteranno comunque quella “ferita” sanguinante attraverso la somatizzazione ad esempio di disturbi d’ansia, disturbi del sonno o comunque, e non in minor misura, disturbi da uso di sostanze, quasi come una forma di automedicamento. Il livello relazionale, può risentirne tanto anche attraverso una forma di chiusura che il soggetto tenderà a mettere in atto, l’evitamento, per porre una difesa tra sé e un eventuale ripetersi della situazione ritenuta “pericolosa”.
È sempre complicato riuscire ad entrare in relazione con persone che vivono o hanno vissuto una situazione traumatologica importante. Si impatta con una forma di chiusura. Ci si scontra con una chiusura simil autistica. Nella mia esperienza ho visto diverse manifestazioni e diverse modalità di reazione da persona a persona.
Il trauma psichico determina un cambiamento nel senso di sé nelle “vittime” e contestualmente anche nei loro rapporti interpersonali.
Il parallelismo tra un bambino abusato e un rifugiato di guerra, anche se può sembrare azzardato, consiglio di prenderlo con le pinze e focalizzarsi sui punti che hanno in comune: la perdita del senso di sé, della propria libertà, della propria dimensione. C’è tra le righe, ma nemmeno troppo celata, una dimensione che svela la palese perdita. Un cambio generale. Un bambino abusato va sicuramente aiutato a riappropriarsi della sua dimensione e in questa nuova dimensione a costruirsi un futuro; il rifugiato a sganciarsi dal senso di appartenenza. Li collega tra loro, ancora una volta, la frammentazione dell’identità.
Non sto soffermandomi sui disturbi che potrebbero emergere da tali eventi; non sto considerando un disturbo post traumatico da stress, oppure la slatentizzazione di altri disturbi psichiatrici. Quello che mi piaceva condividervi è semplicemente il lato umano, l’aspetto relazionale. E quello che procura in noi l’aver ascoltato o essere a conoscenza di una trauma psichico in una persona.
Come ci si pone, cosa ci si aspetta da queste persone…?
Anna e Luigi: è stato complicato il loro percorso di vita. Il loro dolore si è anche sviluppato in modo diverso. Perché ha avuto radici diverse. Luigi è stato allontanato dal suo paese natale a causa di forza maggiore. Ha dovuto ricercare in altri luoghi la sua identità dove non ha trovato le sue abitudini, le sue conoscenze…un paese alieno, una lingua diversa, una cultura diversa. Senza affetti. Senza rete.
Anna ha dovuto rinunciare alle sue certezze perché ha avuto un tradimento: quella protezione che le spettava non c’è stata. Chi avrebbe dovuto tutelarla di fatto le ha tolto l’innocenza. Le ha tagliato le ali. Ha sradicato le sue radici.
Anna e Luigi hanno seguito un percorso di psicoterapia che è durato all’incirca tre anni. Luigi non l’ho più incontrato…avrà messo radici in un’altra parte del Paese.
Anna, di tanto in tanto, fa capolino sulla soglia della porta del mio studio.
All’inizio diceva che era semplicemente per salutarmi. Dopo un po’ ha chiarito che per lei è una certezza sapere di cercarmi e di trovarmi. Lo fa per raccontare gli episodi belli della sua vita. E ogni volta che ha una novità, bella o brutta che sia, trema. Nel tremore mi cerca. Quasi come a non sentirsi di meritare quella bellezza nella sua vita. È già da un po’ che non ha attacchi di panico, ma le novità continua a volerle elaborare insieme…
I vissuti traumatici non permettono di aggregare quelle parti scomposte che si sono andate frammentando. E Anna ha imparato a riorganizzarsi così. Anna non è e non sarà mai come gli altri pazienti. Avrà per sempre una corsia preferenziale. È un permesso che mi sono guadagnata sul suo campo di battaglia: entrare nelle sue difese dissociative serve ad aiutarla a regolarsi nuovamente e gestire la sua vita, perché succede che il trauma riemerge…
Questa condivisione nasce comunque dall’esigenza di comunicare che anche se il trauma riemerge, la cura esiste. Non bisogna temere di non farcela, ma non bisogna nemmeno essere temerari. Il trauma si cura. E “Anche se il timore avrà sempre più argomenti tu scegli la speranza”. (Seneca)