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“La ricchezza delle pecore”: l’ultimo libro di Alberico Bojano, omaggio a San Gregorio Matese

Un secolo di storia - il Settecento - riemerge dagli archivi: le pecore di San Gregorio sono motore e motivo di crescita, sviluppo, narrazioni, tradizioni nel libro di Alberico Bojano edito da Guida

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Matese tra moderno e contemporaneo

“La ricchezza delle pecore. Clero, matrimoni e fame nel Settecento sul Matese” è l’ultimo libro di Alberico Bojano pubblicato dalla nota casa editrice napoletana Guida.
La piccola comunità di San Gregorio Matese, di dove è originario l’autore, è descritta in tutte le sue sfumature nel secolo che ha impresso alla comunità una forte identità: il Settecento. È questo il tempo che caratterizza l’intera comunità, i suoi volti, i gruppi familiari, i mestieri, le tradizioni, le personalità, ancora oggi anima viva nella comunità locale. Su Clarus, per la rubrica Matese tra moderno e contemporaneo pubblichiamo la prefazione al libro, firmata dal professore Giuseppe Castrillo docente di Lettere e Dirigente scolastico: parole che ci immettono nella dimensione descritta da Bojano anticipando ritmi, sentimenti, riti, e la visione di uno spaccato storico che appartiene alla Storia del Mezzogiorno. 

Giuseppe Castrillo – A muoversi dentro la rete di nascite, di vite e di morti, di parentele che si intrecciano, di professioni che maturano in ambiente agropastorale, di flussi commerciali, di esperienze di transumanza, tessuta da Alberico Bojano, si entra nelle fibre della piccola comunità di San Gregorio, posta sul Matese, ed in origine casale di Piedimonte. È un insieme di case e di persone che, a partire dalla seconda metà del ‘600, si articola intorno a cinque ceppi familiari.
L’autore li vede mentre si ingrandiscono, mutano condizione, acquistano prestigio attraverso la presenza, al loro interno, di sacerdoti che non sono soltanto semplici ministri del culto, e intanto trasformano il destino del piccolo borgo che conta all’inizio poche anime, solo trecento, e che, sul finire del ‘700, supera ampiamente il migliaio.
La ricchezza delle pecore racconta il progredire di sei ragazzi, “i capostipiti” e dei loro eredi, che compiono un’impresa: “permettono un’inaspettata rigogliosità dell’economia paesana, che radica i suoi punti cardine nella transumanza con l’indotto commerciale a essa collegato e nella gestione della finanza locale, attraverso le cappelle laicali” (1) . È la storia di una tessera notevole della civiltà del Meridione d’Italia, soprattutto di un orgoglio mai sopito, nonostante le vicende storiche
l’abbiano costretta alla marginalità. Infatti questa comunità avrà nel tempo funzionari, deputati e senatori prima del regno borbonico, poi del Regno d’Italia, infine della Repubblica Italiana.
Muovendo dagli archivi parrocchiali, dal catasto onciario, dal libro dei matrimoni e dei morti, l’autore ricostruisce la vita quotidiana, le scelte lavorative, le competizioni maturate all’interno dei
nuclei familiari, la psicologia di un’intera popolazione. Sullo sfondo c’è il lento evolversi di un villaggio di pastori a cittadina fervida di attività, e di intelligenze che si muovono in tutto il regno borbonico prima e poi nel meridione del nuovo regno addentellando l’attività pastorale del Matese a quella della Capitanata (2). L’opera di Bojano non è soltanto questo: in effetti è una mitografia, il cui tono mitico si coglie fin dall’incipit dell’intero volume (3). Una descrizione suggestiva, tenuta con la penna del narratore e dello storico e dell’antropologo insieme. Circondato dall’alone del mito, quell’incipit fotografa San Gregorio, lo cristallizza nel flusso del tempo, così che il lettore non sa se quell’incipit riguarda la comunità sorgente di San Gregorio o la cittadina in forte espansione sul finire del ‘700, ormai agli albori dell’800. Rileggendo quella descrizione si ha come la sensazione
di un mondo catafratto nel mito, di un fossile inglobato nell’ambra del ricordo e dell’evocazione mitica. E scorrendo le pagine quest’idea si avvalora ancora di più. Senza togliere nulla alla qualità delle ricerche storiche e archivistiche, sembra non di camminare tra documenti e testimonianze, ma di leggere un racconto di esistenze, di anime, di conflitti, a volte anche sordi, che fanno pensare “al tempo circolare o meglio concentrico” (4) . Alberico Bojano, infatti, produce una testimonianza che può essere letta come una lunga narrazione che esplora una realtà apparentemente statica ma caratterizzata da un forte dinamismo interno, come un racconto costruito su di uno sterminato e documentato repertorio etnoantropologico.
Le famiglie dei capostipiti-patriarchi (se è consono il riferimento a Macondo) hanno modellato lo spazio urbano. Leggendo le numerose e precise tavole topografiche ci si accorge che San Gregorio diventa il libro aperto di una cultura del paesaggio, determinatasi e costruita attraverso il pensare e il provvedere di uomini che hanno sfruttato le colture, e che hanno vissuto il legame con la terra d’origine e con il paese senza struggimenti, senza il gioco emotivo della rimembranza. Il libro racconta relazioni carnali e simboliche tra le famiglie, tra l’uomo, l’ambiente sociale e l’ambiente naturale. Ha scritto Alain Bourdin, a proposito del rapporto tra paesaggio e cultura locale, che “Ciò
che ci viene dai predecessori ci offre una serie di modelli da imitare, ma anche da rimodellare e da combinare” (5) . È in effetti ciò che accade a san Gregorio dove il susseguirsi delle generazioni delle cinque grandi famiglie, disegna nuovi spazi abitativi e viari, assegna alla trasmissione dell’eredità il
senso della continuità ( e/o di “ continuità nella rottura”) per cui la durata delle generazioni “contrasta con la brevità delle vita”. (6) Qualcuno leggendo il volume di Alberico Bojano potrebbe
richiamare il concetto di “storia totale” (7) : la calma tranquillità, che giorno dopo giorno, si dispiega nel paese, copre un brulichio di contrasti velenosi a volte ben occultati e nascosti, altre manifesti e dichiarati, di opere possibili grazie alle greggi allevate per proprio conto o per conto delle cappelle laicali o del feudatario locale con il quale non mancano i conflitti pur nelle trascorrere delle generazioni, delle attività, degli investimenti. Eppure grazie allo stile narrativo asciutto, quasi da cristallografo, si resta affascinati dalle vite che si intrecciano e il lettore, come se si trovasse dinanzi a un romanzo, aspetta i prossimi matrimoni, le nuove figliolanze, le più recenti ordinazioni sacerdotali, le lauree che sopraggiungono, le annuali mene delle pecore in Capitanata. Una narrazione che non concede niente all’intrigo e che nel suo scorrere lento, racconta come niente è più reale e concreto del vivere quotidiano. Sembra di leggere un “romanzo senza idillio” direbbe qualcuno, dove tutto è al suo posto nella trama del tempo e se qualcosa cambia rientra nel fluire nella normale condizione umana. Agli occhi di illustri viaggiatori: un vedutista che disegna le bellezze del Matese o di un botanico che ne coglie piante e semenze, San Gregorio deve apparire come “una felice e mai perduta Arcadia” (8) .
A dare slancio, ad imprimere uno scatto alla vita delle famiglie è il prospero allevamento e il conseguente commercio diffuso in tutto il Matese. L’exemplar di questo modello di sviluppo, nella
seconda metà del ‘700, è costituito da personaggi che si muovono con destrezza nei commerci, nel solco degli esempi paterni, che danno impulso alla loro ricchezza “grazie all’allevamento transumante”, e che celebrano la loro ascesa sociale destinando i figli ad un’affermazione imprenditoriale. Il titolo che viene riconosciuto all’affermazione sociale degli eredi dei sei iniziatori
di una civiltà agropastorale è “magnificus”: attestazione di una raggiunta posizione di preminenza sociale, di un nuovo status, di una capacità di agire, di fare il bene proprio e anche della comunità.
D’altra parte, negare quel titolo, registrando una dipartita nel Libro dei morti, è segno di un irriducibile contrasto familiare. Nella ricostruzione dell’esemplarità dei personaggi, Bojano sottolinea anche la loro larghezza di vedute: qualcuno, infatti, “guarda al futuro dei suoi figli anche in funzione della loro educazione, aprendo casa a Napoli” (9) . Lentamente le famiglie si
sottraggono al destino endogamico, che all’origine aveva permesso di congiungere terre e capitali, greggi e guadagni. Tuttavia lo scivolare degli eventi, costellati di nuove unioni matrimoniali, di ricchezza armentizia e di un crescente potere economico e sociale, pur tra contrasti, che spesso riprendono vecchie ruggini, nulla può contro l’improvviso abbrivo della storia che imprime un accelerazione di velocità e di cambiamento alla prisca tranquillitas, alla vita “cadenzata e monotona” (10) , come definisce l’autore la piccola ma florida cellula agropastorale di San Gregorio.
D’altra parte la storia “non è poi/la devastante ruspa che si dice.” In fondo è “benevola” scava “sottopassaggi, cripte” mette al riparo nei suoi “nascondigli”. Fuor di citazione montaliana, il
vento della rivoluzione del 1799 e poi il sedimentarsi del regime napoleonico nel Meridione d’Italia da un lato migliorano le condizioni dei due ceppi che si sono distinti fra i cinque originari, dall’altra aprono la pagina luttuosa del brigantaggio e della sua repressione in un Matese provato dalla miseria e da prepotenze vecchie e nuove . E il racconto di uomini e pecore, pur continuando a tramarsi sullo sfondo dei pascoli, della transumanza e degli spostamenti in terra di Capitanata,
diventa storia di uomini che, anche grazie a matrimoni azzeccati, ormai fuori dell’orbita endogamica, diventano personaggi-chiave in una storia d’Italia che tra Ottocento e Novecento cerca di farsi storia di una nazione, pur rimanendo impigliata in una serie di contraddizioni che ancora la avviluppano, e che emergono nella narrazione lucida di Alberico Bojano.

Note bibliografiche

[1] A. Bojano, La ricchezza delle pecore. Clero, matrimoni e fame nel Settecento sul Matese,  Guida Editore, Napoli 2022, p.58.

[2] Cfr. G. Galasso, Il paesaggio disegnato dalla storia, in AA.VV., Il paesaggio italiano. Idee contributi immagini, Touring Editore, Milano 2000, p.47

[3] A. Bojano, La ricchezza delle pecore. Clero, matrimoni e fame nel Settecento sul Matese, cit., p.19.

[4] Prendo a prestito la definizione di Beniamino dal Fabbro nella recensione a Cent’anni di solitudine, per “Il Resto del Carlino”.

[5] A. Bourdin, Le Dépot Sacré,  Revue Cahiers Internationaux de Sociologie (n°vol. LXXXI, juillet-decembre 1986).

[6] Abbiamo ripreso il concetto della continuità generazionale da Alain Bourdin.

[7] Ci si riferisce all’opera di Emmanuel Le Roy Ladurie. Anche nel libro di Bojano, lo studio delle fonti  è rinforzato dai contributi  che vengono dalla demografia, dall’antropologia, dalla linguisticae

[8] A. Bojano, La ricchezza delle pecore. Clero, matrimoni e fame nel Settecento sul Matese,  cit., p.219.

[9] Ivi, p.183.

[10] Ivi, p.211.

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