Fabrizio Peloni – È importante comprendere bene «il significato che ha per Giovanni il gesto della lavanda dei piedi». La recente costituzione apostolica di Papa Francesco Praedicate Evangelium ne «fa menzione nel preambolo, come l’icona stessa del servizio che deve caratterizzare tutto il lavoro della Curia Romana riformata». Nella quinta e ultima predica di Quaresima il cardinale Raniero Cantalamessa – stamattina venerdì 8 aprile, nell’Aula Paolo VI, alla presenza del Santo Padre – ha invitato ancora una volta a riflettere sull’Eucaristia, partendo dalla nota pagina evangelica in cui Gesù si china per lavare i piedi dei discepoli. Essa aiuta a capire, ha detto il predicatore della Casa pontificia, come si può fare dell’esistenza un’Eucaristia e così «imitare nella vita ciò che si celebra sull’altare». Del resto, ha spiegato il porporato cappuccino, si è davanti «a uno di quegli episodi (un altro è quello della trafittura del costato), in cui l’evangelista lascia intendere chiaramente che c’è sotto un mistero che va al di là del fatto contingente che potrebbe, in se stesso, sembrare trascurabile». Il cardinale ha avviato la riflessione domandandosi come mai Giovanni, nel racconto dell’ultima cena, non parli «dell’istituzione dell’Eucaristia», ma riferisca «invece, al suo posto, della lavanda dei piedi». Il motivo è che in tutto ciò che riguarda la Pasqua e l’Eucaristia, ha fatto notare il predicatore, l’evangelista «mostra di voler accentuare più l’evento che il sacramento; più il significato che il segno». Per lui, la nuova Pasqua non comincia tanto nel Cenacolo, «quando si istituisce il rito che la deve commemorare», in quanto «si sa che l’ultima cena di Giovanni non è una cena “pasquale”». Inizia piuttosto sulla «croce quando si compie il fatto che deve essere commemorato».
È lì, ha evidenziato Cantalamessa, che «avviene il passaggio dalla Pasqua antica a quella nuova». Per questo egli sottolinea che a Gesù sulla croce «non fu spezzato alcun osso»: perché così «era prescritto per l’agnello pasquale nell’Esodo». Il cappuccino ha, quindi, proposto di meditare sul servizio che non è, «in se stesso, una virtù». In nessun catalogo delle virtù «si incontra la parola diakonía, servizio». Si parla, anzi, perfino di «un servizio al peccato (cfr. Rm 6, 16) o agli idoli (cfr. 1 Cor 6, 9) che non è certamente un servizio buono». Infatti, il servizio è «una cosa neutra: indica una condizione di vita, o un modo di rapportarsi agli altri nel proprio lavoro, un essere alle dipendenze di altri». Può essere, addirittura, «una cosa negativa, se fatta per costrizione (come nella schiavitù), o solo per interesse».
Carità
Tutti oggi parlano di servizio, ha aggiunto il cappuccino, tutti dicono di essere a servizio. Ma è evidente che il servizio di cui parla il Vangelo «è tutt’altra cosa, anche se non esclude di per sé, né squalifica necessariamente il servizio come è inteso dal mondo». La differenza è tutta «nelle motivazioni e nell’atteggiamento interiore con cui il servizio è fatto». Rileggendo il racconto della lavanda dei piedi, ha detto il predicatore, si comprende con che spirito la compie Gesù e da che cosa è mosso: «Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine (Gv 13, 1)». Dunque il servizio non «è una virtù, ma scaturisce dalle virtù e, in primo luogo, dalla carità». È, anzi, «l’espressione più grande del comandamento nuovo»; è «un modo di manifestarsi dell’agápe», cioè di quell’amore che «non cerca il proprio interesse (cfr. 1 Cor 13, 5)», ma quello degli altri, che «non è fatto solo di ricerca, ma anche di donazione». È, insomma, «una partecipazione e un’imitazione dell’agire di Dio» che, essendo «il Bene, tutto il Bene, il Sommo Bene», non può «amare e beneficare che gratuitamente, senza alcun proprio interesse». Per tale ragione, il servizio evangelico, «all’opposto di quello del mondo, non è proprio dell’inferiore, del bisognoso, di chi non ha»; ma lo è piuttosto «di chi possiede, di chi è posto in alto, di chi ha». Per questo, Gesù dice che, nella sua Chiesa, soprattutto «chi governa» deve essere «come colui che serve» (Lc 22, 26), chi è «il primo deve essere “il servo di tutti” (Mc 10, 44)». In questo senso, la lavanda dei piedi è «il sacramento dell’autorità cristiana».
Umiltà
Accanto alla gratuità, ha aggiunto il porporato, il servizio «esprime un’altra caratteristica dell’agápe divina: l’umiltà». Le parole di Gesù: «Dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri», significano: «dovete rendervi a vicenda i servizi di un’umile carità». Carità e umiltà, insieme, ha proseguito Cantalamessa, «formano il servizio evangelico». Ma, a pensarci bene, che cosa «ha fatto Gesù per definirsi “umile”?». Forse ha «sentito bassamente di sé, o ha parlato in modo dimesso della sua persona?». No. Al contrario, nell’episodio stesso della lavanda dei piedi, egli dice di essere “Maestro e Signore” (cfr. Gv 13, 13). Cosa dunque ha fatto per definirsi “umile”? Si è chiesto il cardinale e la risposta è stata che «si è abbassato, è disceso per servire!». Dal momento dell’incarnazione Gesù «non ha fatto altro che discendere, fino a quel punto estremo, quando lo vediamo in ginocchio, in atto di lavare i piedi agli apostoli». Che fremito «dovette correre fra gli angeli, al vedere in tale abbassamento il Figlio di Dio, sul quale essi non osano neppure fissare lo sguardo (cfr. 1 Pt 1, 12)», ha commentato il cardinale. Il Creatore è «in ginocchio di fronte alla creatura!». Così intesa, cioè come «un abbassarsi per servire, l’umiltà è davvero la via regia per somigliare a Dio e per imitare l’Eucaristia nella nostra vita». Ecco perché, ha fatto notare il predicatore, il frutto di questa meditazione dovrebbe essere «una revisione coraggiosa della nostra vita: abitudini, mansioni, orari di lavoro, distribuzione e impiego del tempo», per vedere se essa «è realmente un servizio» e se, in questo servizio, ci sono «amore e umiltà». Il punto fondamentale è «sapere se noi serviamo i fratelli, o invece ci serviamo dei fratelli». Si serve dei fratelli e «li strumentalizza colui che, magari, si fa in quattro per gli altri», ma in tutto ciò che fa «non è disinteressato, cerca, in qualche modo, l’approvazione, il plauso oppure la soddisfazione di sentirsi, nel suo intimo, a posto e benefattore».
Radicalità
Il Vangelo presenta, su questo punto, «esigenze di una radicalità estrema». Tutto ciò che è fatto, coscientemente e a ragion veduta, «per essere visti dagli uomini», è perso. Infatti, ha concluso, Cristo «non cercò di compiacere se stesso! (Rm 15, 3): questa è la regola del servizio».
Fonte vaticannews.va