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La figlia oscura: madri e figlie. Un intimo, doloroso e delicato femminile plurale

Al cinema dal 7 aprile il film di Maggie Gyllenhaal tratto dall’omonimo romanzo di Elena Ferrante

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Noemi Riccitelli –  Non solo l’Amica geniale. Prima del recente successo, sia editoriale che televisivo, dato dalla più famosa quadrilogia, Elena Ferrante era già prolifica scrittrice: negli anni ’90 l’esordio con L’amore molesto, poi all’inizio degli anni ’00 I giorni dell’abbandono; da entrambe queste opere sono state tratte note trasposizioni cinematografiche con la firma, rispettivamente, dei registi Mario Martone e Roberto Faenza.
Ancora, ecco, nel 2006 la pubblicazione della Figlia oscura, cui qualche anno fa l’attrice Maggie Gyllenhaal ha iniziato a lavorare per trarne un film.
Opera prima per Gyllenhaal, al suo esordio alla regia, che ne ha curato anche la sceneggiatura, ricevendo numerosi riconoscimenti internazionali: il film, infatti, in concorso alla 78a Mostra del Cinema di Venezia, è risultato vincitore del premio per la miglior sceneggiatura, inoltre, è stato candidato a 3 Premi Oscar, tra cui quello per la miglior attrice a Olivia Colman.
La figlia oscura (The lost daughter) è al cinema dal 7 aprile.

In un’isola nei pressi di Corinto, in Grecia, Leda Caruso (Olivia Colman), docente di letteratura comparata, decide di trascorrere le sue vacanze in solitaria.
Di lì a poco, sulla spiaggia dove si reca quotidianamente, arriva una numerosa famiglia proveniente dal Queens, ma di origini greche, i cui membri sono soggetti senz’altro fastidiosi, maleducati e loschi.
Dell’intero gruppo, Leda rimane colpita da Nina (Dakota Johnson) e da sua figlia Elena, le quali sembrano avere un rapporto molto intimo.
L’incontro innesterà profonde e turbolente riflessioni nella mente della docente, riportandola indietro al suo passato, alla sé ancora giovane (Jessie Buckley).

Apportando qualche modifica alla trama originale, Maggie Gyllenhaal riesce bene nel suo intento di rappresentare una storia tanto intima ed intensa.
Intima come solo la maternità e i sentimenti che essa porta con sé, può essere: La figlia oscura, infatti, è una storia che racconta l’essere madre in una prospettiva originale rispetto alla narrazione solitamente proposta sul tema.
Una riflessione, questa, ricorrente negli scritti di Elena Ferrante, la quale ha messo in discussione l’atavico binomio “donna-madre” e, con parole schiette e anche dolorose, ha saputo raccontare la verità nascosta e troppo spesso edulcorata di tante donne che, pur desiderando essere madri, si sono trovate poi intrappolate in un ruolo che le ha progressivamente umiliate, inducendole a tenere da parte le proprie ambizioni e desideri personali, specie nel caso di professioniste.
Come se la maternità andasse, a poco a poco, ad agire sull’essenza stessa della donna, sulla propria identità, privandola di parte di sé: un concetto particolarmente delicato e, forse, persino incomprensibile alla visione collettiva,in parte nutrita dalla religione, di cui la società tutta è figlia.

La messa in scena di Gyllenhaal e le riflessioni di Ferrante sono supportate ed interpretate brillantemente dalla componente femminile del cast: in particolare, Olivia Colman e Jessie Buckley.
Olivia Colman è una Leda matura e realizzata, ma ancora rosa dal senso di colpa e da uno straniante sentimento di destabilizzazione che la pervade; Jessie Buckley interpreta, nei flashback a lei dedicati, la Leda giovane, stanca, afflitta, che cade sotto i colpi dei doveri quotidiani, alla ricerca costante di stimoli che possano ispirarla e, in qualche modo, salvarla da una realtà che per lei è diventata prigione.
Una recitazione, quella delle due attrici, minimale e sottile, in cui le battute sono tranchant e la comunicazione avviene soprattutto attraverso gli sguardi, i movimenti del corpo, che lasciano trapelare ogni emozione.

Nonostante il rapporto tra letteratura e trasposizione cinematografica non sia sempre idilliaco, Maggie Gyllenhaal ha realizzato un film che tiene fede alla coraggiosa istanza delle pagine da cui è nato: una visione audace, che va compresa e accettata, soffermandosi a riflettere sulle sempre molteplici, non univoche, inclinazioni dell’essere umano.

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