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L’Italia e la guerra in Ucraina: “tirare fuori capacità di sobrietà e solidarietà”, l’invito delle ACLI

Uno sguardo sull'Italia e sull'andamento della vita mentre si muove il conflitto Russo-Ucraino. Parla Stefano Tassinari, vicepresidente nazionale delle Acli con delega al Lavoro e al Terzo settore chiamando in causa il senso di solidarietà del nostro popolo ma anche la necessaria sobrietà nelle abitudini quotidiane

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Alberto Baviera – “C’è da sperare che l’Italia e gli italiani sappiano tirare fuori capacità di sobrietà e solidarietà, di cui mi auguro ci siano ancora delle riserve”. Così Stefano Tassinari, vicepresidente nazionale delle Acli con delega al Lavoro e al Terzo settore, commenta al Sir l’attuale situazione economica di lavoratori e famiglie italiani in un 2022 che si è aperto con l’aumento del costo delle bollette energetiche e le ricadute del conflitto con l’aumento dei prezzi di alcuni beni di consumo.

Dal vostro osservatorio cos’è emerso?
La situazione è un po’ preoccupante. Senza voler essere catastrofisti, prima ancora dell’economia e del lavoro dobbiamo tener presente che il nostro, di fatto, è un Paese in guerra. Non abbiamo una minaccia sulle nostre vite ma siamo coinvolti dal conflitto: ci sono alcuni aspetti che creano preoccupazione al di là delle ricadute economiche, soprattutto se, al di là del Papa, non si fa nulla di concreto per risolvere la situazione. Non c’è ancora sufficiente coscienza del fatto che nella globalizzazione quello che succede altrove – e lo dicevamo già prima della guerra in Ucraina – ha ripercussioni anche su di noi. Nella globalizzazione tutto è connesso. E, relativamente alla guerra, il minimo che ci può capitare è una ricaduta economica ma, se continua così, non credo che le conseguenze saranno limitate solo a quello.

Stefano Tassinari

Intervenendo al Parlamento europeo il premier Draghi ha parlato dell’impatto durissimo sull’economia italiana registrato da inizio anno…
L’impatto è pesante, noi avvertiamo questa sensazione pur non avendo dati che registrano nell’immediato l’andamento. Ai nostri sportelli e nelle attività che facciamo come associazione, già prima che il conflitto scoppiasse, abbiamo registrato una crescita dell’aggressività nelle persone accompagnata a smarrimento. Questo non coinvolge certo tutta la cittadinanza. Tra le difficoltà si vedono anche buona volontà, molte progettualità. Non mancano i segnali di speranza, insomma. Però c’è un clima non positivo.

A che cosa è dovuto questo?
Il cosiddetto rimbalzo del Pil e dell’occupazione sta ancora avvenendo e ci sono ancora dati positivi ma la pandemia prima e la guerra ora hanno contribuito ad accelerare e acuire delle tendenze che c’erano già prima. Tutto fa pensare che il colpo più forte dovuto alla guerra arriverà quando la situazione, speriamo il prima possibile, si stabilizzerà: ma probabilmente ci saranno relazioni internazionali molto più bloccate, sorgerà una sorta di nuovo muro di Berlino. E l’export italiano, il settore che ha aiutato il Paese ad affrontare la crisi del 2007, ne pagherà le conseguenze.

Ieri l’Istat ha diffuso i dati sulla disoccupazione che è scesa all’8,3% tornando ai livelli del 2010. Al contempo sono aumentati i contratti a termine – saliti a quota 3.159.000, il livello più alto dal 1977 – ed è cresciuta al 24,5% la disoccupazione tra i giovani. Cosa dicono questi numeri?
Si sono recuperati i numeri dell’occupazione che c’erano nel 2007 ma ciò è avvenuto un po’ “lavorando peggio per lavorare tutti”. Non si può non tener conto anche del fatto che è cambiato il sistema di rilevazione: una persona che oggi lavora un’ora la settimana è considerata occupata. E, infatti, il numero di ore lavorate sono inferiori a quelle di un decennio fa. A questo si aggiungono le disparità salariali: la realtà è che – e noi stiamo facendo uno studio approfondito – giovani, donne e stranieri guadagnano meno non tanto perché hanno una retribuzione oraria inferiore agli altri ma perché sono costretti ad orari ridotti e contratti più frammentati. Questo fa sì che, tendenzialmente, siano lavoratori più poveri.

Questo è un elemento di fragilità…
Con la guerra potrebbe essere un dato ancor più destabilizzante perché avendo in Italia un Pil che farà più fatica sull’export, per mantenere una qualche crescita dovremmo avere famiglie che consumano. Ma negli ultimi 10-15 anni, abbiamo costruito – soprattutto per le generazioni più giovani – delle situazioni reddituali complessivamente più deboli del passato. Pochi investimenti in figli, in case e in tutto ciò che “fa girare” l’economia. Ne consegue che la domanda interna è molto indebolita. Oggi le discussioni sono concentrate sul prezzo del gas e dell’energia ma la sensazione è che il peggio debba ancora venire, perché non si è ancora registrato un calo della domanda interna e dell’export che, inevitabilmente, ci saranno. E poi c’è un altro elemento che pesa.

Quale?
Il nostro Paese si è sempre rifugiato nella famiglia, ma oggi è un anello che rischia di essere debole per il cambio demografico che ha subito l’Italia negli ultimi decenni.

Il contributo una tantum di 200 euro per lavoratori e pensionati fino a 35mila euro di reddito varato dal governo e la richiesta di Draghi di ampliare lo “Sure”, lo strumento europeo di sostegno temporaneo per attenuare i rischi di disoccupazione in un’emergenza, possono essere risposte efficaci?
Il problema è capire se quella che stiamo vivendo è o meno una crisi transitoria. Se l’ipotesi è che tutto si risolva presto e bene allora si può pensare che si torna ad accarezzare il rimbalzo che c’era stato dopo la pandemia… Ma non so se è prudente scommettere su questa eventualità, perché la sensazione è che il mondo a guerra finita non sarà più quello di prima. Nell’immediato questi provvedimenti possono essere utili, è essenziale dare ossigeno a chi fa fatica. Ma serve anche una politica lungimirante, il Next Generation Eu è stato un buon primo passo. Servirebbe un Piano Marshall per l’Africa, aggredire i paradisi fiscali e riformare la finanza internazionale… Oggi la ricchezza è concentrata in poche mani, ma in un mondo connesso il benessere o si mette un po’ in discussione o difficilmente sarà sostenibile a lungo. In Italia servirebbe un fisco “sartoriale”, serve un riformismo più convinto e più sociale. E poi dobbiamo anche cambiare l’idea che abbiamo del Mediterraneo: senza l’immigrazione il Paese non si salverà.

C’è qualcosa che La fa essere fiducioso?
Le opportunità, le eccellenze, le esperienze positive ci sono. Si tratta di essere più coraggiosi e solidali. Se si fa squadra e si ha un po’ di audacia le ricette, seppur non totalmente risolutive, non mancano. E ci sono tante cose che si possono fare.

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