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Comunicazioni Sociali. Squid Game: quei contenuti mediatici che indignano

In attesa della 56esima Giornata delle Comunicazioni Sociali, una riflessione sul delicato rapporto tra la "cultura pop televisiva" e il pubblico dei minori. Resta acceso il dibattito sul "panico morale" connesso al prodotto Netflix Squid Game, la serie sudcoreana molto in voga tra i minorenni

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Il dibattito sul rapporto tra “cultura pop televisiva” – quella per intenderci delle piattaforme always on e anywhere – e il pubblico dei minori è sempre molto acceso. Nei mesi scorsi, a cavallo tra la fine del 2021 e il nuovo anno, questo dibattito si è riacceso in maniera molto sentita, grazie (o causa) del noto prodotto Netflix Squid Game – questo lo stimolo che volgiamo adottare in questo tutorial – che ha prodotto video, accuse, articoli, discussioni e nuove forme di censure che ci riportano al tema del controllo e dell’educazione. Non spendiamo molte parole per inquadrare la serie, si tratta però di un prodotto coreano proposto su Netflix e vietata ai minori di 14 anni (questo il limite per l’accesso, aspetto da non dimenticare). Così spiega Giovanni Ziccardi: «tra richieste di oscuramento e di censura, accuse più o meno velate ai genitori per la loro assenza, richieste alle piattaforme di intervenire, critiche ai produttori di simili contenuti, delusioni per i comportamenti di molti minori, preghiere di azioni politiche, sociali, tecnologiche a ogni livello e, in generale, un senso di disorientamento diffuso soprattutto tra le generazioni più mature, siamo arrivati a un punto di discreto caos che domanda, a mio avviso, alcune riflessioni più pacate e, soprattutto, più sul lungo periodo. Di Squid Game, infatti, ne arriveranno altri, e ogni volta gli stessi problemi si riproporranno».

Ma cosa si insegna questa vicenda dal punto di vista educativo e del sistema dei media? Proviamo a evidenziare qualche aspetto saliente, in quattro punti, rimandando all’articolo che spiega il lavoro proposto in classe:
la reazione: la prima reazione collettiva è stata di fatto una risposta “di pancia”, che si è attivata dopo che i bambini “mimavano” la nota sequenza del gioco tradizionale raccontato nelle prime puntate della serie coreana. Una reazione molto simile a quella che la letteratura inquadra come “moral panic” o panico morale davanti a contenuti, aspetti, pratiche che non riusciamo a comprendere, che ci toccano direttamente, che sono ad alta polarizzazione (pro o contro) e che, possiamo dire, richiedono un intervento più complesso di un semplice cenno di repulsione o spavento;
il focus: di Squid Game ce ne sono e ce ne saranno altri, lo abbiamo visto con le vere o presunte challenge come la nota blue whale o il personaggio di Galindo, evidentemente frutto di un mix di realtà e fantasia, di reali accadimenti e di immaginazione che si alimenta attraverso la Rete (pensiamo qui al cosiddetto genere creepypasta ovvero un racconto dell’orrore molto breve e privo di fondamento, che viene copiato e incollato nel web). Non dobbiamo certamente sottovalutare certi fenomeni, si tratta infatti di un allarmismo tutt’altro che innocuo (visti i gesti di emulazione) che spesso prende le mosse da notizie amplificate dai media;
l’attrazione: ciò che assolutamente non possiamo vedere o leggere, crea attesa e curiosità. Si tratta di una legge del marketing che conosciamo da tempo. Ecco che più parliamo di Squid Game (senza fare nulla, senza confrontarci, senza ascoltare i ragazzi e i bambini) e più le puntate diventano oggetto di culto, cercate inn Youtube o negli smartphone degli amici, raccontate aumentando il pathos e anche la crudezza stessa del serie (che ricordiamo non è stata prodotta per i bambini);
il sistema dei media: è chiaro che non basta rispondere con frasi semplici, quando siamo davanti a problemi complessi. “E’ colpa dei genitori che non vigilano”, “se hanno Netflix, che attivino i filtri con la creazione di un profilo per i minori”, “non c’è più rispetto per l’infanzia”. Ecco, il problema è che al tempo dei media portabili e delle piattaforme non serve spegnere il televisore, inserire filtri o creare profili per minori. La tv non è solo in tv, Netflix non è solo nella piattaforma Netflix, ma arriva nei social, attraverso i meme, su Youtube, nelle parodie che piacciono tanto ai bambini, nel merchandising (borse, caramelle, portachiavi). Anche senza aver visto Squid Game possiamo dire qualcosa della serie coreana. Occorre allora accompagnare (una delle 3 A di Tisseron, ovvero una strategia di lavoro educativo che chiede all’adulto di esserci e non solo di controllare o censurare senza motivare), descrivere i confini, spiegare i contenuti e le motivazioni per cui parlare di criminalità violenta, di un gioco senza regole, di crisi economica e di debito, di società dell’apparenza e di vergogna sia complesso e meriti il giusto tempo.

Fermare l’ondata è impossibile, occorre ascoltare, accompagnare, spiegare, fare insieme ai bambini, confrontarsi senza giudicare. Come scriveva Kaplan (in tempi non sospetti): «ci preoccupiamo della violenza sugli schermi televisivi, ma non siamo tanto preoccupati, apparentemente, della violenza del mondo reale intorno a noi – nelle nostre città, in Vietnam, in Medio Oriente. Vogliamo proteggere i nostri figli dal simbolo piuttosto che dalla realtà» (Kaplan, 2021, p. 43).

Testi di Alessandra Carenzio – fonte weca.it

 

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