Matese tra Moderno e Contemporaneo
di Armando Pepe – La storia, nel lungo periodo, si misura anche secondo parametri comprendenti “cesure” e “transizioni”, oltre a sostanziali momenti di variabile durata, di stasi. La storia di una comunità, come Piedimonte, ha fatto passi da gigante, pur in un’apparente fase di immobilismo. Tuttavia, usando la metafora dell’acqua che si vede scorrere in un fiume, nulla è uguale a sé stesso, ma tutto cambia. Costantino Leuci, docente e politico, appartiene a quella generazione di intellettuali, formatisi nelle aule universitarie della Federico II tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta del secolo scorso, in cui vivo permane il senso critico e operativa l’attitudine allo sguardo distaccato delle e/o dalle cose. Lo dimostra nell’ultimo lavoro, dal titolo “La transizione incompleta”, in cui cerca, con tesi convincenti, di dare risposte ai tanti quesiti che la vita pone, nel caso in ispecie, la vita civica che si concretizza nell’impegno quotidiano nell’affrontare la prassi.
Il professore Guido D’Agostino, nel completo e succinto saggio introduttivo, traccia le coordinate da seguire, marcando, nello svolgersi degli accadimenti, pure «gli esiti non di rado ambigui, intrisi di tendenze, per così dire, camaleontiche, “gattopardesche”, in termini più propri del linguaggio politico, trasformistiche che accompagnano i processi di mutamento/adattamento» (p. 12). Il trasformismo, infatti, sia detto con il necessario disincanto, è una delle costanti storiche, né potrebbe darsi diversamente. Il libro segue uno schema che mette a fuoco, partendo da lontano, i temi del presente, adottando e sceverando i dati statistici. L’Autore comincia col dire che «nel 1861, al primo censimento generale dell’Italia unita, Piedimonte d’Alife [secondo l’antica denominazione] conta 8760 abitanti. Cento anni dopo, la popolazione sale a 10101 residenti, di cui 4831 maschi e 5270 femmine» (p. 25). La statistica è importante per comprendere i flussi demografici, rendendo il numero l’immagine complessiva di una realtà.
Da bravo docente Leuci, nel primo capitolo, spiega l’endiadi “istruzione e società”, conscio del fatto che il capitale di conoscenze di un paese è il volano del progresso e che la cultura è, senza se e senza ma, una fonte inestinguibile di ricchezza. Piedimonte, per il numero dei diplomati e dei laureati, si pone in netto vantaggio rispetto ad altri contesti meridionali. In questa disamina, condotta con scrupolo, a Leuci sovvengono in soccorso le letture e le concrete istanze di Don Lorenzo Milani, nonché i sogni e le speranze coltivabili di Adriano Olivetti. Nel secondo capitolo, “Economia e Lavoro”, l’Autore, conscio del grande passato di Piedimonte, impostasi per laboriosità esemplare al resto del Regno di Napoli e conseguentemente delle Due Sicilie, insiste sulla locale vocazione operaia, dato che la cittadina «non ha mai avuto una grande tradizione agricola[…]. La ragione, naturalmente, sta nella posizione e nella confermazione del territorio, che poco si presta a coltivazioni estese, ma anche nella presenza abbondante di acqua che, viceversa, ha sempre incoraggiato l’attività manifatturiera, soprattutto ma non esclusivamente, in campo tessile.
Una tradizione antica che trova la sua esaltazione e modernizzazione nel cotonificio impiantato a Piedimonte da Gian Giacomo Egg nel 1813, il quale accompagna e caratterizza la storia, non solo economica, della città fino alla sua distruzione nel 1943» (pp. 46-47). L’Autore pone giustamente l’accento sulla lavorazione cotoniera, avendo negli anni passati dedicatovi una pubblicazione, ben sapendo che l’industria del tessuto, prima la lana e poi il cotone, rappresenta la saldatura tra un prima e un dopo entrambi vissuti all’insegna della produzione. Gli antichi piedimontesi avevano una visione d’insieme che poggiava, essendovi quasi incardinata, sull’organicità dell’incontrovertibile paesaggio naturale, foriero d’ogni bene, e la resilienza, tipica di una mentalità tenace, che badava al sodo; questo, sia detto senza infingimenti, anche per la guida illuminata e mai oppressiva della casa feudale dei Gaetani. Con amarezza Leuci ripercorre le fasi ultime della vicenda del cotonificio, conclusasi con un’illusione disillusa, con strascichi giudiziari presaghi di un’imminente fine. Qui la resilienza è venuta meno. C’è stata la Cassa per il Mezzogiorno, ha fatto tanto, vedasi l’acquedotto, per alcuni versi, ma troppo poco se si considera la desertificazione industriale, un azzeramento che ha trasformato Piedimonte in un centro che patentemente vive sul terziario.
Il territorio, segnatamente per la volumetria delle costruzioni innalzate dal secondo dopoguerra ad oggi, è cambiato, la fisionomia del centro è diversa nel bene e nel male. Più di mezzo secolo fa, nei frangenti, e negli ambienti politici ed amministrativi locali la fiaccola della speranza rimaneva accesa, poiché «un’altra opera veniva realizzata e inaugurata il 19 gennaio del 1969: l’impianto sciistico di Bocca della Selva, il primo in Campania, alla presenza del Sottosegretario alla Pubblica Istruzione, Elio Rosati» (pp. 107-108). Prendendo a prestito, sviluppandolo, un ragionamento di Carlo D’Andrea, Leuci ancora una volta torna sulle speranze disattese, laddove scrive che «Bocca della Selva, con la sua offerta turistica bistagionale, avrebbe dovuto giocare un ruolo di primo piano, arrivando ad offrire 860 posti letto, tra alberghi, villaggio turistico, camping e sistemazioni residenziali» (p. 110): uno studio di fattibilità assegnato a Fulco Pratesi e Mario Fiorentino. Con sgomento si nota che a Campitello Matese, in Molise, il sogno è diventato realtà, mentre Bocca della Selva è un luogo di bisbocce estive e di vaghi ed estemporanei divertimenti invernali. Le conclusioni assumono sia i toni della reprimenda verso una classe politica locale in parte attenta al peculiare e priva di slanci e volizioni, applicante alle tante cose da fare uno schema ragionieristico, sia del pamphlet dal taglio illuministico e volutamente apodittico su ciò che si dovrebbe fare.