Come si vive l’esperienza della disabilità all’interno di una famiglia, da genitori e/o da fratelli? Quali e quante domande deve porsi chi lavora a sostegno di famiglie in cui vigono situazioni di disabilità? Per la rubrica “Voci d’Inverno” una riflessione che fornisce risposta a tali domande dal Centro Diocesano per la Famiglia “Mons. Angelo Campagna”
“Quando mi sono risvegliato senza gambe
ho guardato la metà che era rimasta,
non la metà che era andata persa” (Alex Zanardi)
di Rosaria De Angelis
Il velo, di per sé diafano, ha una caratteristica particolare, tra le altre, che è quella di riuscire a lasciar scorgere le forme dell’oggetto che avvolge pur addolcendone le spigolosità. È un po’ l’idea che mi rimanda a un certo tipo di famiglia che vive al suo interno la disabilità di un suo membro, magari di un figlio. Nella mia esperienza, sono spesso le madri ad operare la funzione di velo: sarà tutela? Lavorare con una famiglia in cui la disabilità è presente pone sicuramente l’interlocutore in una condizione diversa da una situazione in cui la disabilità non è presente.
Sono tanti i parametri che in una condizione di assenza di disabilità non verrebbero proprio presi in considerazione. Mi è capitato anche di interfacciarmi con genitori che non fossero pienamente consapevoli della diagnosi dei loro figli; detto così suscita sconcerto, ma subito dopo la situazione si chiarifica. La paura di sapere, di affrontare pone il genitore, in questo caso, in una condizione di distanza dalla situazione: “Non capisco bene i termini medici!” Ci sono delle cose che se non vuoi capire non capirai mai, perché ti poni in una condizione di non apertura della situazione. Si chiamano resistenze. E sfiancano, sia chi le vive che chi le ascolta. È una vera e propria chiusura simil-autistica al dolore che intanto squarcia dentro.
Siblings
Ho scelto di trattare questo argomento perché ho provato ad aiutare a togliere il velo e quando ci siamo riusciti abbiamo visto un bambino sorridente. A sorridere non era solo lui, ma anche il suo fratellino poco più grande. Spesso, quando in una famiglia c’è un figlio disabile, le energie dei genitori convogliano su di lui, tagliando fuori altri figli “sani”. Spesso ai siblings (fratelli) viene chiesto di essere sempre comprensivi, sempre disponibili, di crescere in fretta e da soli… questa estrema ed eccessiva responsabilizzazione pone loro in una situazione in cui è avvertita maggiormente la solitudine ed una relativa paura del futuro.
Ma come vive un sibling la situazione della disabilità del proprio fratello?
“Prima dell’esperienza mia col mio compagno, quando vedevo una carrozzina pensavo solo alla carrozzina. Poi ho capito che dietro c’è altro. Un modo diverso per organizzarsi la vita!” Lavorare con i genitori di un disabile, spessissimo, è più complicato che con un partner di un disabile.
Da dove si inizia a lavorare?
Spesso comincio dalle loro paure. O meglio, a dar voce alle loro paure. Andiamo a ritroso a rivivere l’evento di comunicazione della diagnosi, al momento dell’insorgenza della malattia, al giorno dell’incidente…andiamo in quel tempo tragico e drammatico e togliamo il velo della paura…e poi ritorniamo nel presente. “Ho guardato la metà che era rimasta” (A.Z.). È un arduo lavoro, ma si ricomincia come ha fatto il campione: guardare la metà che era rimasta. E ripartire da lì. Il fatto di conoscere la diagnosi del proprio figlio, partner, genitore aiuta, non solo a capire cosa si sta vivendo ma anche, e soprattutto, a capire come organizzarsi la vita. I ritmi cambiano e con essi si modificano le abitudini e personali e familiari. Spesso le famiglie dei disabili lamentano di essere sole ad occuparsi di tutto.
Cosa accade, inoltre, se all’interno delle famiglie c’è un fratello disabile? Come si vive questa disabilità?
Le normali relazioni di attaccamento, di confidenza, di litigio, di discussione tra i fratelli sono alterate. Che fine fa la competizione? In un’ottica di sostegno alla famiglia si osserva e si lavora anche su questo. Bisogna stabilire nuove forme di comunicazione, di relazione, di simmetria o di gerarchia. E se voltassimo lo sguardo al partner disabile valutando altro, ad esempio, di come si vive la sessualità? E per tutti, stiamo solo prendendo in considerazione situazioni di bisogni normali, fisiologici, umani. Anche l’adozione, se uno dei due genitori è disabile, diventa più complicata. A livello teorico nessun divieto in nulla vige, ma poi nella pratica la società costruisce da sempre dei meccanismi di difesa che sono soffocanti, claustrofobici, che tagliano fuori.
Nella quotidianità ci si trova a combattere la solitudine e la depressione che attanaglia a turno i componenti della famiglia, per via delle preoccupazioni sul futuro e sulle difficoltà giornaliere che si vivono. Vi è l’aspetto, la parte, per così dire, normodotata, che tenta di esplodere, di venire fuori in ogni momento ed è giusto che emerga. È giusto, ad esempio, che ciascun componente si prenda i suoi spazi, coltivi i suoi interessi, abbia momenti di svago. Questo rappresenta un recupero della propria identità e nel ritrovare se stessi ci si sente meno soli, meno colpevolizzati. Ecco, lavorare con famiglie è aiutare a ricostruirsi la vita…non è solo una carrozzina. Ho avuto modo di affiancare persone affette da disabilità, partecipare a progetti terapeutici/riabilitativi. Ho visto e toccato con mano l’energia di certe madri per cercare di creare spazi idonei di aiuto per i propri figli. Mettere su idee che affianchino il concetto ortodosso della riabilitazione: attraverso programmi sperimentali abbiamo ottenuto tanti risultati positivi.
Bisognerebbe chiedersi tante cose quando ci si approccia con una famiglia che ha un “disabile”. A partire dalla mattina, da quando ci si sveglia, dagli impegni di routine, dalla stanchezza che anche se e quando sopraggiunge deve essere messa da parte. Alla fatica che ciascuno di loro fa per stare al passo con questo mondo bizzarro. Bisognerebbe chiedersi, soprattutto, ma Mario, nome di fantasia, da quella carrozzina come lo vede il mondo? Come vede me? A Mario e a tutti coloro che vivono una disabilità, affinché il mondo riesca ad essere all’altezza delle loro “carrozzine”…ops, pardon, di tutto quello che c’è dietro.