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Commento al Vangelo. Gesù è quel padre tenero che accoglie con amore il ‘figliuol prodigo’

Commento al Vangelo di domenica 11 settembre, XXIV del Tempo ordinario - Anno C

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Di Padre Fabrizio Cristarella Orestano
Comunità Monastica di Ruviano (Clicca)

XXIV domenica del Tempo ordinario – Anno C
Es 32,7-11.13-14; Sal 50; 1Tm 1,12-17; Lc 15,1-32

Siamo un popolo di dura cervice: incapaci di chinare il capo, incapaci di obbedienza. «Di dura cervice»: così il Signore definisce il popolo che aveva fatto uscire dall’Egitto e che, stancatosi del faticoso cammino verso la libertà, ha voluto un dio visibile e toccabile cui affidarsi, un dio con le sembianze di un vitello d’oro. Dura cervice è allora quella rigidità dinanzi a Dio che ci inganna e ci fa credere che le nostre vie siano migliori e più sagge di quelle di Dio; chi è di dura cervice rifiuta le strade tracciate da Dio e imbocca le proprie strade. È questa la scelta di Israele nel deserto, è questa la scelta della pecorella che decide di non seguire più il gregge, è questa la scelta del paese lontano del figlio giovane della celebre parabola.

Edward John Poynter (1836-1919): “Il ritorno del figliuol prodigo” (1869)

Oggi, però, vorrei che non ci soffermassimo sulla nostra dura cervice, la nostra comune dura cervice, ma sulla tenerezza di Dio; Lui non è di dura cervice, infatti continua a chinare il capo dicendoci infiniti sì nella misericordia. Scrive Paolo nel testo della Prima lettera a Timoteo che abbiamo ascoltato che «c’è una parola sicura e degna di essere da tutti ascoltata: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori» e aggiunge: «e di questi il primo sono io». Questa parola sicura ci dà forza, ci dà gioia, ci accende di speranza, ci libera dalla paura ella nostra fragilità e del nostro peccato; una parola sicura che non svaluta la gravità del peccato (già ci pensa il mondo a farlo di continuo aprendo all’umanità vie di pseudo libertà che risultano invece invase da tanfo di morte!) ma ci pone innanzi ad esso con verità liberante. Non vorrei riflettere sul peccato ma sulla misericordia, non vorrei soffermarmi su di noi ma su Dio. Oggi la liturgia è un canto sereno e limpido al Dio delle misericordie e a Lui ci chiede di abbandonarci con la lode di questa Eucaristia. Ogni Eucaristia è rendimento di grazie per Cristo che è la nostra pace (cf. Ef 2,14) ed è per noi remissione dei peccati; è infatti comunione con quel Corpo spezzato e quel Sangue versato per la remissione dei peccati.

Volgiamo a Lui lo sguardo. La pagina celeberrima di Luca è quella delle parabole della misericordia; potremmo leggere anche solo le prime due e tagliare, con la forma breve, la parabola del figliuol prodigo o meglio del Padre misericordioso (che d’altro canto abbiamo già letto quest’anno nella Quarta domenica di Quaresima) ma ci fa bene riascoltarle tutte e tre lasciandoci afferrare dalla narrazione di un volto di Dio fuori da ogni schema “religioso”: non un Dio chiuso nella sua santità, pronto a lanciare castighi terrificanti, non un Dio che, assicurando sventure punitive ai peccatori, rassicura i buoni e fonda la morale, ma un Dio che va in cerca dell’unica pecora smarrita senza fare calcoli di numeri (lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta) e gioisce invitandoci alla sua stessa gioia lasciandoci però con una domanda pericolosa per ogni uomo religioso: ma quei novantanove saranno davvero giusti? O sono degli ingiusti che non vogliono farsi trovare dalla tenerezza del pastore, che non vogliono scoprirsi come ingiusti e smarriti?

Il Dio che Gesù narra non ha paura di rassomigliarsi ad una massaia che cerca con affanno la dramma perduta perché senza di essa è più povera. Sì, un Dio che non teme di dirci che anche se siamo smarriti e pieni di polvere siamo la sua ricchezza, siamo preziosi ai suoi occhi (cf. Is 43,4). Un Dio che non ha pudore di confessare che noi siamo la sua gioia: «Rallegratevi con me…». Il Dio che Gesù narra è capace di pazienza e di attesa, non si spaventa delle nostre lontananze, dei nostri peccati, che ci rendono sempre più poveri, non ha paura del nostro puzzo di porcile… Gesù ci narra di un Padre che spera e non si stanca di farlo, di un Padre che ci corre incontro coprendoci di baci (come è dolce quel verbo katafilèo che non significa semplicemente baciare, ma baciare con effusione, con tenerezza!) e dicendoci in mille modi che siamo rimasti sempre figli anche nella lontananza e nell’inimicizia (cf. Rm 5,6-9). Anche questo racconto termina però con una domanda drammatica, domanda che sorge dinanzi al figlio “giusto” che non entra nella gioia del Padre. Entrerà mai a quella festa? Ancora una dura cervice incapace di chinarsi per dire un sì all’amore…

La pagina lucana si era aperta con dei “giusti” di dura cervice incapaci di leggere lo stare di Gesù a mensa con i peccatori e si chiude con un altro “giusto” che rifiuta di sedere a quella mensa impedendo che la festa per la gioia del Padre sia piena. Un’inclusione: tra due durezze è però stretta la tenerezza misericordiosa del Dio che Gesù ha narrato con la vita e le parole. Una tenerezza che attende e spera che la durezza di chi non china il capo nell’amore si trasformi in un sì capace di lasciarsi abbracciare e perdonare, capace di accogliere il peccatore riconoscendo in lui un fratello, riconoscendosi a sua volta peccatore come lui: «Cristo è venuto a salvare i peccatori e di questi il primo sono io».

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