Come una fenice…
l tempo ha cucito qualche ferita
E forse tolto anche ai miei muscoli
Un po’ di elasticità
Ma non sottovalutare la mia voglia di lottare
Perché è rimasta uguale
Non sottovalutare di me niente
Sono comunque sempre una combattente
È una regola che vale in tutto l’universo
Chi non lotta per qualcosa ha già comunque perso
E anche se la paura fa tremare
Non ho mai smesso di lottare
Fiorella Mannoia
di Concetta Riccio
Una storia di rinascita raccontata con il contributo anonimo della protagonista che chiameremo Addolorata, 43 anni, tre figli adolescenti e una vita meravigliosa avanti a sé. Così riprende il mio contributo a questa rubrica, con un’eccezionale intervista per la quale ringrazio sin da subito “la mia felice“.
Spesso mi sono chiesta quanto fosse utile ad altre donne ascoltare chi viene “dallo stesso girone”, quante paure potesse dissolvere il confronto con “chi ci è passata”, ma anche quante domande, curiosità, potessero trovare risposta e arrivare magari anche ad una sola donna in difficoltà ed incoraggiarla a chiedere una mano.
Di seguito l’intervista ad Addolorata, che dal suo “girone” è uscita vittoriosa.
Cosa ricordi del tuo primo colloquio presso il Centro diocesano per la Famiglia? Aspettative, paure, ma soprattutto cosa vuoi dire alle altre donne in difficoltà rispetto al coraggio di chiedere aiuto?
Ricordo che era maggio, pieno covid, restrizioni, mi sono ritrovata davanti la porta del Centro dubbiosa se entrare o meno, alla fine sono entrata e di fronte a me avevo solo due occhi azzurri, un camice bianco e una mascherina. La mia paura era non riuscire a trasmettere quello che fosse il mio disagio. Ricordo le domande, che lì per lì mi creavano imbarazzo, ma oggi capisco che erano indirizzate a capire e valutare la mia reale condizione. Fondamentalmente non si è mai pronti a “scavare”, abituati ad essere colpevolizzati e considerati depressi da chi non sa cosa vivi.
Alle altre donne direi di trovare quei dieci secondi di lucida consapevolezza, solo quelli possono portarti lontano, nel primo passo vi è tutto, il primo passo ti porta lontano.
Nel ricordare questo primo colloquio di accoglienza in piena emergenza sanitaria, quanto pensi sia stato compromesso il setting?
Se da un lato il covid è stato la mia salvezza, dover fare un primo colloquio con distanze di sicurezza, mascherina, transenne, ha limitato l’accoglienza. Successivamente, ho visto, invece, persone con le braccia aperte pronte ad accoglierti, come dice il mio terapeuta “qui siamo come l’icona classica della Madonna, la madre accogliente”. In quei mesi invece il rapporto umano era molto limitato, l’ho vissuto appieno successivamente.
Quanti anni hai vissuto nella violenza e quanti nella consapevolezza senza reagire?
Ho vissuto in totale 20 anni nella violenza e 15 nella consapevolezza. Ricordo tanti compleanni senza aver ricevuto nemmeno gli auguri di compleanno, ricordo un unico regalo di compleanno: un ferro da stiro. La consapevolezza ti porta a fare dei tentativi, ovvero provare a far valere le tue ragioni e lì inizia la violenza vera e propria.
Cosa pensi avrebbe potuto aiutarti a interrompere prima questa relazione malata?
Avrei dovuto vedere la realtà, che ero una “cameriera”, una persona senza alcuna autonomia in casa, nemmeno economica, mi confrontavo con qualche amica ma non ero pronta evidentemente.
Quindi ci sono state persone a te care che hanno provato ad aiutarti? Cosa non ha funzionato?
Si ci sono state, un’amica, suo marito, la mia famiglia di origine. Mi ripetevano che quello non era un matrimonio, ma io, che ero invischiata in una famiglia allargata, quella di mio marito, ero assuefatta, mi ha salvato il covid. La reclusione forzata mi ha fatto prendere consapevolezza. Tramite le chat sentivo le persone che mi volevano bene, vedere le loro vite, relazioni, cosi diverse, mi ha fatto aprire gli occhi. La mia vita quel periodo era fatta di lunghi silenzi, preparazione di pranzi, cene, liti insopportabili anche per un bicchiere fuori posto.
A chi hai confidato la prima volta come stavi?
A mia suocera, pensavo potesse aiutarmi, invece ha deciso di non immischiarsi. Successivamente poi mi sono aperta con un’amia, amica che ha asciugato sangue, lacrime, curato ferite, amica che ha gioito con me il giorno che ho deciso di lasciare quella casa.
Cosa ha rappresentato per te il percorso fatto al Centro diocesano per la Famiglia, e cosa rappresenta oggi?
Il percorso al centro ha rappresentato l’inizio di quello che definisco il piano b della mia vita. Mettersi a nudo, scavarsi dentro, disattendere le aspettative. Mi è stata restituita dignità. Per la prima volta mi sentivo di nuovo al centro come persona. Da un lato ovviamente c’è la carezza, l’accoglienza, dall’altro degli scossoni utili a dover rivalutare molte cose, la prima è il fatto di essersi fatti fare tanto male. Mi sono sentita decomposta e ricomposta come essere umano ecco. Credo che il mio percorso psicologico è stata un’avventura. Oggi per me il centro è casa. Il luogo dove posso andare anche per un consiglio, o poter scambiare due parole con chi mi ha visto rinascere, chi mi ha consentito di non restare nel “trauma” ma avere delle relazioni serene anche con l’altro sesso oggi.
Quanto la tua relazione violenta ha influito sul tuo ruolo genitoriale?
Il mio ruolo è stato condizionato tanto, ero una mamma chioccia, zerbino, oggi penso che una madre è innanzitutto una donna. Questo lo dico dopo quasi tre anni di terapia, anche l’assenza della madre è fondamentale. Sento di non aver responsabilizzato i miei figli.
Ti manca qualcosa della tua vita precedente?
Assolutamente nulla, avrei solo voluto farlo prima ecco. Oggi sono arrivata alla consapevolezza che nessuno è la metà di nessuno. Ricordo ancora il senso di colpa, di solitudine, di abbandono, di inferiorità, di incompiutezza, di dipendenza. Non sono le cose che ci accadono il problema e neanche le persone che ci circondano. Ma il senso che smuovono in noi quei fatti e quelle persone. È il nostro vissuto che crea mostri, ferite e paure.