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Commento al Vangelo. Come preghiamo? Come il fariseo o come il pubblicano?

Commento al Vangelo di domenica 23 ottobre, XXX del Tempo ordinario - Anno C

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Di Padre Fabrizio Cristarella Orestano
Comunità Monastica di Ruviano (Clicca)

XXX Domenica del Tempo ordinario – anno C
Sir 35 12-14.16-18; Sal 33; 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18, 9-14

Davanti a chi si prega? Dove si prega?

L’autentica preghiera cristiana avviene in un “luogo” straordinario, non in un luogo ordinario come lo si intende ordinariamente, non in un tempio, ma “in” Dio. Il cristiano prega autenticamente stando in Lui, dimorando in Lui, sentendosi avvolti dal suo Amore di Padre, dalla tenerezza del Figlio che ci ha amati e ha dato se stesso per noi (cf. Gal 2,20), nell’abbraccio dello Spirito che abita in noi e ci trascina “in” Dio … E tutto questo non solo è il luogo della preghiera, ma anche il motivo della lode che anima ogni vera preghiera. Lode per qualcosa che Dio ha fatto e fa per noi e lo fa in modo totalmente gratuito, a prescindere dai nostri “meriti”.

La parabola del fariseo e del pubblicano ci presenta due personaggi che incarnano la possibilità e la capacità o meno di pregare per davvero. In fondo Gesù non racconta questa parabola per parlarci direttamente della preghiera ma per parlarci di due cuori, di due modi di essere uomo davanti a Dio e davanti agli altri uomini. In questo racconto di Gesù la preghiera è solo (!) lo specchio veritiero del cuore dei due uomini. Nella preghiera si ravvisa la qualità dell’uomo. È così.

Ed ecco la preghiera del fariseo, uomo “religioso”, impeccabile, infallibile, irreprensibile. Una preghiera che sembra iniziare bene: «O Dio, ti ringrazio …». Anche Gesù inizia a pregare in modo molto simile: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra …» (Lc 10,21). Gli esiti sono però radicalmente diversi. Gesù ringrazia il Padre per quello che il Padre ha fatto rivelando ai piccoli i misteri del Regno: «Sì, perché così è piaciuto a te…», dice Gesù. Il fariseo no: ringrazia per sé; non eventualmente per quello che Dio ha fatto in lui, ma per quello che egli è e per quello che egli non è; non per quello che Dio ha fatto, ma per quello che lui stesso fa. E qui la preghiera, direi, “abortisce” e diventa un’altra cosa: monologo capace solo di innalzare un muro tra lui e Dio! Un monologo folle in cui il fariseo addirittura si vanta davanti a Dio! Un monologo in cui trova agevolmente posto il disprezzo per gli altri, un disprezzo che non si accontenta d’essere generico per coloro che sono ladri, ingiusti, adulteri ma che si appunta anche su un soggetto concreto: quel pubblicano che certo lo ha disturbato quando ha visto che osava entrare nel Tempio.

Gustave Dorè (1832-1883): “Il fariseo e il pubblicano”. Illustrazioni bibliche, incisione 1865.

Il monologo del fariseo è tanto folle d’orgoglio che elenca una serie di presunti precetti cui presta osservanza; dico presunti perché in verità nessun precetto della Torah chiede il digiuno due volte alla settimana, il Libro del Levitico lo prescrive una volta all’anno (cf. Lv 16,29); lui invece digiuna due volte alla settimana per espiare i peccati “degli altri”; certo non i suoi perché lui è irreprensibile (quanti ne conosciamo di uomini e donne irreprensibili, incapaci di chiedere perdono, che hanno una ragione per tutti i loro comportamenti e che non attendono altro che tu chieda loro perdono … magari per aver pensato male!); inoltre le decime, secondo la Torah, (cf. Dt 12,17) vanno pagate non dall’acquirente ma dal produttore; lui il fariseo, però, paga anche quello che non deve e questo per sentirsi la coscienza a posto nel dubbio che il produttore avesse non pagato la decima … (l’espressione greca panta osa ktõmai è più preciso tradurla “tutte le cose che acquisto” e non “tutte le cose che possiedo”). Il fariseo tragicamente crede di pregare, ma non prega; crede di sbandierare a Dio la sua “giustizia”, ma tornerà a casa sua senza giustificazione; aveva calpestato gli altri, e quella concreta incarnazione degli altri che è quel pubblicano, pur di elevarsi, ma alla fine è nulla agli occhi di Dio. Già il Libro di Isaia diceva: « Come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia» (Is 64,5).

L’altro, il pubblicano, è entrato nel Tempio a testa bassa … non ha nulla da portare a Dio, solo la sua miseria, il suo peccato, i mille compromessi che ha fatto con se stesso e con la parola della Torah … è a mani vuote … le mani le usa solo per battersi il petto e per dire con questo gesto  che lì, nel suo petto, nel suo cuore c’è la causa di ogni sua miseria; in quel cuore fragile, incline al male … Non dice tante parole ma le sole sensate che noi uomini possiamo dire dinanzi alla santità di Dio: «Sii benevolo con me … abbi pietà di me». A questo piccolo uomo gravato dal suo peccato gli altri appaiono tutti migliori di lui; avrà anche guardato con ammirazione a quel fariseo pieno di giustizia, con le mani levate a Dio e con le tante parole che gli si leggevano sulle labbra; gli altri sono tutti migliori di lui perché lui è “il” peccatore. Il testo greco è così: c’è l’articolo determinativo: «Abbi pietà di me il peccatore». Quasi che sia lui l’unico peccatore … Quando questi tornò a casa, ci dice Gesù, non era più a mani vuote, aveva il dono più grande di Dio che con amore lo rendeva giusto: «Tornò a casa sua giustificato».

Il problema allora qui non è quello del modo migliore di pregare, qui è questione di verità e di consapevolezza della verità. Il fariseo non sa la verità né di Dio, né di sé perché è ubriaco di se stesso. È lui l’orizzonte angusto della sua vita. Il pubblicano invece non sa altro che la sua verità cioè che è povero e peccatore, a mani vuote e con una sola speranza: la misericordia di Dio. E questo ci dice che sa pure la verità di Dio, sa pure chi è Dio: è il Dio capace di amore e misericordia nella più assoluta gratuità. Direbbe S. Agostino che questo pubblicano è il vero sapiente: La vera sapienza è sapere chi è Dio, e chi sono io. All’inizio delle Confessioni Agostino scrive: «Chi sono io per te? Chi sei tu per me? Ma chi mi farà riposare in te, chi ti farà venire nel mio cuore a inebriarlo? Allora dimenticherei i miei mali e il mio unico bene abbraccerei: te. Cosa sei per me? Abbi misericordia, affinché io parli. E cosa sono io stesso per te, sì che tu mi comandi di amarti. Oh, dimmi per la tua misericordia, Signore Dio mio, cosa sei per me. Di’ all’anima mia: “La salvezza tua io sono!”» (Le Confessioni, 1,1.5).

È impressionante che S. Benedetto nella sua Regola addita questo pubblicano come unico modello del monaco che, quando ha percorso tutta la scala dell’umiltà, deve essere come publicanus ille, come quel pubblicano (RB VII,65). È così, e non solo per il monaco. È lì la nostra meta perché poi da lì il Signore compirà in noi le sue opere. Solo così l’uomo può consegnarsi nelle mani di Colui che lo può plasmare fino a dargli il volto di Cristo, fino a dargli quella capacità di combattere la buona battaglia, di giungere al termine della corsa della sua storia custodendo la cosa che più conta: la fede, l’adesione a Lui che ci ama. In fondo il meraviglioso passo della Seconda lettera a Timoteo che oggi leggiamo è un modo di farci vedere in Paolo concretamente incarnato publicanus ille, in lui che si è riconosciuto amato nella più assoluta lontananza, mentre era nemico (cf. Rm 5,8-10).

Se avremo il “coraggio” dell’umiltà che è verità, il Signore ci porterà a “volare alto”: »Chi si umilia sarà innalzato»!

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