Piedimonte Matese e Nomadelfia dialogano ancora come all’epoca di Don Espedito Grillo, dell’On Giovanni Caso, di don Giacomo Vitale e di don Zeno Saltini; quest’ultimo, sacerdote emiliano fondatore dell’Opera Piccoli Apostoli e poi di Nomadelfia, realtà scaturite dal sogno di un cattolicesimo rinnovato, di forte impronta sociale, basato sulla dimensione comunitaria e formativa dei suoi membri, sulla totale accoglienza degli ultimi perché non fossero mai ultimi nella società. Molto si è scritto e ricordato degli anni del dopoguerra in cui a Piedimonte d’Alife sorse una “succursale” dell’Opera Piccoli Apostoli; ed è di pochi giorni fa un nuovo approfondimento curato del docente e ricercatore in materie storiche Armando Pepe, di Piedimonte, per il sito Storia della Campania, inviato poi a Nomadelfia: la mail ha suscitato subito l’interesse della Comunità toscana tanto da invitare il prof. Pepe a raggiungere il luogo per un confronto sui fatti storici.
E’ il valore della ricerca, ma anche l’urgenza di offrire alla Storia presente modelli che ispirarono un cristianesimo d’impegno e di ascolto, di carità e di prospettive sulla vita degli uomini.
Riproponiamo la parte introduttiva dello scritto di Pepe, rimandando tramite link all’intero lavoro. Nella foto allegata, il decreto del Vescovo Luigi Noviello con cui accoglie l’Opera Piccoli Apostoli a Piedimonte.
Armando Pepe – La Seconda guerra mondiale stava per avviarsi a conclusione. Miserie materiali e morali impregnavano l’intera Italia, massime nelle zone interne ed isolate, a lungo depotenziate dalla geografia dei luoghi, come il Matese. In quei cupi frangenti apparve a Piedimonte d’Alife (oggi Piedimonte Matese) il tenace e combattivo sacerdote carpigiano Don Zeno Saltini, per una combinazione favorita da Don Espedito Grillo, parroco della chiesa matrice di Ave Gratia Plena.
Don Giacomo Vitale, un cattolicesimo avanzato
Gli offrì il destro Giovanni Caso, medico e docente universitario, esponente politico della Democrazia Cristiana, distante da una neghittosità adiafora, che di sovente le classi abbienti avevano mostrato nei confronti del popolo. Il professor Caso, in poche parole, incarnava i sentimenti e gli insegnamenti profusi da Don Giacomo Vitale, che continuava ad essere nella diocesi alifana il vero motore polivalente della dottrina sociale della Chiesa, fedele fino agli ultimi respiri all’eredità immateriale trasmessagli da Giuseppe Toniolo, venerato maestro. Secondo i propositi di Don Vitale, condivisi fermamente dalla parte più avanzata del clero locale, la Chiesa, o per intercessione o in prima persona, doveva stare al fianco dei lavoratori salariati, degli artigiani, dei carbonai, di chi viveva alla giornata. Erano tempi in cui, sia pure la società era devastata dall’immane conflitto e dal continuo scontro ideologico, si cercava la speranza, per fecondare opere di bene. Si pensava al futuro, confidando che ormai il peggio fosse alle spalle.
Don Zeno Saltini, il primo incontro con la città di Piedimonte d’Alife
Don Zeno Saltini, fautore di un ideale che propugnava il cattolicesimo comunitario, che ricalcasse le origini del cristianesimo, in una lunga e densa intervista, resa nei modi del linguaggio parlato, pubblicata postuma, ricordò le circostanze del proprio arrivo a Piedimonte: «Mentre ero a Pompei, fui chiamato da un vescovo a parlare nel duomo di una cittadina in provincia di Caserta: Piedimonte d’Alife. Io gli ho detto: vengo, ma a patto che possa dire le mie idee liberamente. “Venga pure, venga pure, ho piacere”, dice il vescovo. Dovevo fare nove discorsi in duomo, alla sera.
E io ho cominciato a parlare della giustizia, la giustizia, la giustizia. Il duomo era sempre pieno per tutta la novena e io ho sempre parlato della giustizia in tutti i rapporti sociali. Tutti i baroni del paese vanno dal vescovo a lamentarsi: “Sto prete ha sempre parlato della giustizia; è la novena della Madonna e mai ha fatto il nome di Maria. Nove sere sempre di giustizia”. Allora viene da me una commissione e mi dice: “Abbia la bontà di non parlare più di giustizia; veda se può parlare di un altro argomento”. “Di quale” faccio io? “Per esempio dell’amore” mi rispondono. “Perbacco, volentieri. Anzi, va bene” replico soddisfatto. C’era la festa di chiusura della novena e io dovevo fare il discorso con grande solennità. Allora vado a fare il discorso. E comincio: “Oggi cambierò argomento: vi parlerò dell’amore. Io non mi sono mai azzardato a parlare dell’amore in questa cittadina perché è un discorso troppo forte, mentre la giustizia, insomma. Per esempio, la giustizia: tu hai due paia di scarpe, ne dai uno a quello là che è senza e uno lo tieni per te. Hai due vestiti: uno lo tieni per te e l’altro lo dai. Hai due appartamenti: uno lo dai a quello che non l’ha e uno lo tieni per te. Questa sarebbe la giustizia: dai, ma non ti spogli, insomma”, e tutti ascoltavano. “A me la giustizia pareva più adatta per voi, che già reagite a chi ve ne parla. Comunque, se volete, vi parlo dell’amore. Adesso vi dico subito com’è: hai due paia di scarpe, si presentano due che ne sono senza, le dai a loro e rimani scalzo te; hai due cappelli: via tutt’e due a questo e a quello là; due maglie, via, a questo e a quello là; hai due case, vai fuori di casa a dormire sotto una pianta, dai una casa all’uno e una casa all’altro”. Sicché ho fatto un discorso che ha fatto odiare in un modo crudele l’amore di Cristo. Dicevano: “Roba dell’altro mondo”, e io: “Questo è Gesù Cristo”. Si sono morsi la bocca, la lingua, i denti, tutto, per avermi chiamato”» (Zeno: un’intervista, una vita. Don Zeno Saltini racconta la sua vita e quella di Nomadelfia, pp. 158-159). L’apologo, interpretato con schietto accento emiliano e suggestiva prossemica, fu non solo disarmante, ma addirittura esplosivo, poiché sbaragliò i benpensanti, le anime candide, i reazionari, gettando invece semi che presto sarebbero germogliati in rigogliosi frutti. A parziale rettifica di quanto affermato da Don Zeno, va precisato che il vescovo cui si riferiva era monsignor Luigi Noviello e che il luogo della novena non era il duomo, dato che la chiesa principale o duomo della diocesi si trova in Alife, ma la chiesa di Ave Gratia Plena in Vallata, di cui, come sappiamo, era parroco Don Espedito Grillo, il quale anche nell’immediato periodo postbellico si spendeva senza risparmio in un serrato dialogo con monsignor Ferdinando Baldelli, fondatore assieme a papa Pio XII della Pontificia Opera Assistenza (meglio conosciuta come POA) per alleviare le sofferenze degli indigenti. Il 24 novembre 1947 da Piedimonte scriveva Don Grillo, perorando le proprie ragioni: «Illustrissimo e reverendissimo Monsignor Baldelli, cuore d’Italia. Mi sia permesso di rivolgere a Lei una preghiera, che scaturisce dal più profondo del cuore.
Da due anni, praticamente, qui ci troviamo senza il Vescovo. L’attuale Monsignor Amministratore, con le sue singolari doti di mente e di cuore, e con volontà e sacrifizio, non potrà riuscire a far fronte ai mille bisogni della Diocesi. Nel campo religioso, come in quello caritativo, sociale, politico, in vista delle lotte ideologiche molto accentuate nella zona, con un clero scarso, povero e diviso, noi sentiamo l’urgente bisogno di un nostro Pastore. Vorrei pregarla quindi di interporre i suoi buoni uffici perché l’umile mia supplica di veder subito terminata la vedovanza della Diocesi alifana, vada negli uffici competenti. Il Prof. Onorevole Caso potrà offrire a Lei particolari notizie al riguardo. Mi perdoni dell’ardire! Solo lo zelo per la Chiesa mi spinge a far ciò. Mi consideri il più umile e povero dei suoi servi. Bacio la mano, devotissimo parroco Espedito Grillo» (Archivio Apostolico Vaticano, Pont. Opera Ass., 510, fascicolo 3 “Diocesi di Alife”). L’esplicita allusione di Don Grillo all’Onorevole Caso non era affatto estemporanea, ma rispondeva a tangibili prove di sostenuto impegno, quotidianamente appalesato, da parte di quest’ultimo.