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Ma Dio usa il cellulare? Dipende

La comunicazione al passo con i tempi ma senza cedere al potere degli strumenti

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Adriano Fabris* – In questo periodo la Chiesa cattolica è impegnata intensamente, a livello nazionale e internazionale, nel suo percorso sinodale. Vale la pena riflettere, dunque, su ciò che motiva a intraprendere tale cammino, su ciò che lo sostiene, sulle difficoltà e le sfide che esso deve affrontare. Sto parlando della fede. Sto parlando dei modi in cui la fede s’incarna nella nostra epoca e viene incontro alle sue esigenze.

Se diamo retta ad alcuni report recentemente pubblicati, oggi per la fede cristiana c’è sempre meno spazio. Essa sembra collocata ormai sullo sfondo della nostra cultura, debole, incapace d’incidere, vicina all’irrilevanza. Si veda ciò che mostra con abbondanza di dati il volume curato da Roberto Cipriani: L’incerta fede. Un’indagine quanti-qualitativa in Italia (Franco Angeli, Milano 2020). Il quadro che ne risulta è quello di una fede scomparsa dall’orizzonte delle giovani generazioni e, per i più anziani, sempre più legata a una “religione fai da te”, di cui si accettano indicazioni, prescrizioni, riti, solo nella misura in cui corrispondono a determinate esigenze. È una religione di consumo, una religione – potremmo dire – da supermercato: i cui prodotti sono comprati a patto che costino poco.

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Ma perché tale situazione si è venuta a creare? Perché una prospettiva religiosa interessa sempre di meno? Una delle risposte possibili rimanda agli sviluppi tecnologici. Essi ci vedono, insieme, protagonisti e vittime. Ne siamo protagonisti perché siamo noi che abbiamo dato l’avvio a tali sviluppi e che continuiamo ad alimentarli. Pensiamo al fatto che non possiamo ormai vivere senza smartphone. Ne siamo vittime perché, a prescindere da ciò che comunemente si pensa, le tecnologie non sono affatto neutrali. Trasformano anzi la nostra mentalità e orientano i nostri interessi. Con tutto ciò bisogna fare i conti: anche per quanto riguarda la sua incidenza sulla dimensione religiosa.

Potremmo riassumere la questione con una semplice domanda: Dio usa il cellulare, oppure no? La domanda è semplice, la risposta è complessa. A essere onesti, dovremmo rispondere: sì e no. Ma cerchiamo di capirci bene, al di là dell’interrogativo certamente singolare e apparentemente quasi blasfemo.

La Chiesa, fin dalle sue origini, ha sempre avuto familiarità con la comunicazione e con i suoi sviluppi. Le parabole sono esempi di grande efficacia comunicativa. San Paolo fu un grande comunicatore, sia attraverso la sua predicazione che mediante le sue epistole. Lo stesso annuncio di cui i cristiani sono chiamati ad assumersi il compito si svolge attraverso canali comunicativi: tutti quelli a disposizione. Non è dunque un problema affermare che sì, se serve, anche Dio usa il cellulare. Ogni dispositivo e ogni modalità di comunicazione sono utili per la diffusione della buona novella.

D’altra parte, tuttavia, l’uso di tali dispositivi, cellulare compreso, e l’accettazione di queste modalità comunicative non sono, come dicevo, senza conseguenze. Veicolano modi di pensare che possono essere fuorvianti. Ad esempio possono farci credere di essere noi al centro di ogni processo. Possono farci pensare che siamo noi che controlliamo le nostre attività: sia che si svolgano con, sia che si compiano senza la mediazione delle tecnologie. Possono farci immaginare che ogni relazione che instauriamo, anche quella con Dio, dipende dal nostro potere: magari accresciuto dal ricorso a certi apparati.

Ma se il rapporto con Dio dipende da noi, e se questo rapporto si rivela esigente, allora prima o poi possiamo anche rinunciarvi. Possiamo convenire che non c’è più bisogno di credere. Ecco uno dei motivi della crisi della fede oggi, quale viene attestata anche dalle ricerche di tipo sociologico di cui parlavo, oltre che dalla nostra esperienza. Non si tratta – beninteso – di demonizzare le tecnologie, ma di rapportarsi a esse nella maniera giusta. E la maniera giusta è quella di fare in modo che esse siano certamente veicoli di una comunicazione sempre più potente e capillare, ma senza che ciò induca a credere che siamo noi e solo noi a stabilirne le condizioni. Comunicare è infatti vivere in uno spazio comune nel quale siamo tutti quanti inseriti. Comunicare è fare esperienza di comunità. Comunicare è, in sintesi, ricordare che esiste un’istanza superiore che ci chiama a fare quest’esperienza e che ci parla per prima. Ecco perché, se serve, anche Dio usa il cellulare.

*Professore ordinario di Filosofia morale all’Ateneo pisano, dover insegna anche Etica della comunicazione e Filosofia delle religioni.

Fonte SIR

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