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Commento al Vangelo della quarta domenica di Avvento. Come Giuseppe, lasciarsi sorprendere da Dio

Commento al Vangelo della IV domenica di Avvento

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Comunità Monastica di Ruviano (Clicca)
di Padre Gianpiero Tavolaro

Quarta domenica di Avvento
Is 7,10-14; Sal 23; Rm 1,1-7; Mt 1,18-24

Oltre che tempo di attesa, l’Avvento è, in realtà, anche tempo di crisi – rispetto all’“inaudito” al quale la venuta del Signore apre l’uomo, chiedendogli vigilanza e discernimento – e di sorpresa – dinanzi a un Dio che supera ogni possibile proiezione umana e che sconvolge tutti i progetti degli uomini; esso è, infine, anche tempo di gioia, a partire dalla esperienza di una presenza di un Dio, che mai viene meno alle proprie promesse. Attesa, crisi, sorpresa, gioia: dimensioni queste che, sia pure secondo tonalità e intensità differenti, possono essere ravvisate tutte nei grandi protagonisti evangelici di questo tempo liturgico, cioè Maria, Giovanni il Battista, Giuseppe.

In essi è sintetizzata tutta l’attesa dell’Antico Israele, il discernimento che esso è chiamato a fare per riconoscere la venuta del suo Signore, la sorpresa con cui ci si trova di fronte alla imprevedibile novità di Dio, la gioia che viene dal rimanere nella sua parola, nella disponibilità e nella sollecitudine a fidarsi di essa più che delle proprie buone e convincenti ragioni umane.

In Giuseppe, protagonista del evangelo odierno, a prevalere è la sorpresa di fronte a un “oltre”, che è appello a ritirarsi dalle proprie logiche e dalle proprie speranze, per fare spazio alla logica e alla speranza che sono “da Dio”… l’evangelo presenta Giuseppe come un giusto, un uomo cioè che cerca la volontà di Dio e lotta perché essa si realizzi: nella Scrittura, infatti, la giustizia di Dio altro non è che il suo progetto salvifico, la sua volontà di salvezza e “giusto” risulta essere chiunque obbedisce al Signore, perché il suo progetto si compia.

Lester Yocum (1954): Mentre Maria dorme

Giuseppe, raggiunto dall’annunzio dell’Emmanuele, lo accoglie e questo è possibile perché egli è disposto a lasciarsi sovvertire dalla parola divina che a lui è rivolta. La riflessione della Chiesa si è spesso soffermata sull’obbedienza di Maria che ha permesso al Verbo di farsi carne e di abitare su questa terra (cf. Gv 1,14), ma anche l’obbedienza di Giuseppe è stata luogo in cui Dio è voluto ed è dovuto passare per compiere il suo piano di salvezza: se Maria ha accolto il Verbo e gli ha permesso di avere una carne, Giuseppe ha permesso a quella carne di essere luogo di tutte le promesse, dalla benedizione data ad Abramo, alla promessa fatta a Davide, donando a Gesù quella genealogia, che è legame con la santa radice di Israele.

La sorpresa di Giuseppe è la sorpresa della Casa di Davide, di cui Giuseppe è figlio e alla quale Dio è fedele, ma di una fedeltà che non è scevra da giudizio: la Casa di Davide è davvero un tronco secco che non può generare con il suo seme il Messia! Se, infatti, il Messia nasce, come promesso, nella casa di Davide, ciò avviene per opera solo di Dio e Dio chiede alla Casa di Davide (nel giusto Giuseppe) di riconoscere quella infecondità, che diviene fecondità per la misericordia di Dio!

A Giuseppe è stato chiesto di andare “oltre” il semplice adempimento delle promesse, imparando quella obbedienza che è contraddizione delle proprie vie e che esige il coraggio di “perdere la propria vita” (cf. Lc 9, 23-24; Mt 10,39): Giuseppe perde la sua vita, perché rinunzia ai suoi progetti e ai suoi sogni d’amore e, soprattutto, rinuncia a generare… rinuncia, questa, che per un ebreo questo è qualcosa di immensamente doloroso e contraddittorio in quanto la benedizione data ad Abramo è benedizione nella generazione: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle… Tale sarà la tua discendenza» (Gen 15,5).

Giuseppe offre suo figlio – quello che avrebbe potuto e voluto generare – per accogliere come proprio figlio il Figlio di Dio e in questa offerta Giuseppe è davvero discendenza di Abramo, come Abramo offre il suo figlio! In questo perdere la vita Giuseppe mostra così di essere già, in qualche modo, “discepolo” del figlio suo; tuttavia, proprio in questo perdere la vita, Giuseppe rivela il proprio ruolo di educatore, di maestro di Gesù, il quale ha imparato proprio dal padre nella carne la concretezza del perdere per guadagnare!

L’Avvento di Dio, come tutto l’Evangelo, è dono gratuito ma costoso, perché l’accoglienza del dono comporta dei “sì” compromettenti e dei “no” che negano anche i propri progetti, le proprie vie, le proprie indipendenze: la venuta del Signore può essere riconosciuta solo da uomini con sguardi capaci di guardare lontano, uomini capaci di non lasciarsi guidare se non da Dio! Solo uomini così possono giungere fino alla mangiatoia di Betlemme, diventando i veri cantori del Maranathà (cf. Ap 22,20).

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