di Padre Gianpiero Tavolaro
Comunità Monastica di Ruviano (Clicca)
V domenica del Tempo ordinario – Anno A
Is 58,7-10; Sal 111; 1Cor 2,1-5; Mt 5,13-16
Per quanto il mondo tenda oggi, forse più di ieri, a neutralizzare la presenza dei cristiani – tentando, da un lato, di relegare la loro fede a una sfera privata alla quale non è riconosciuto alcun diritto di incidere sulla vita della pólis, e spingendoli, dall’altro, a fare scelte di compromesso, che, di fatto, sconfessano la “differenza” alla quale l’evangelo sempre chiama i discepoli del Signore –, tale presenza, secondo la parola dello stesso Gesù, dovrebbe invece avere sempre chiara la coscienza della propria specificità, ma anche del proprio essere indispensabile al mondo proprio in ragione della sua “alterità dialogica” nei confronti del mondo: «Voi siete il sale della terra… Voi siete la luce del mondo».
Anzitutto, dicendo «il sale» e «la luce», Gesù sta affermando che i cristiani non rappresentano uno tra gli elementi capaci di dare sapore alla terra o di illuminare mondo, ma che sapore e luce possono darli al mondo solo i cristiani. Non è questa, tuttavia, un’affermazione arrogante o che deve generare arroganza (d’altra parte, il sale, per dare sapore, deve “scomparire” e la luce, perché faccia vedere, non deve attirare lo sguardo su di sé): si tratta, invece, di un’affermazione che intende richiamare a quella consapevolezza di sé e della propria identità dalla quale scaturisce una grande responsabilità e senza la quale si corre il rischio di perdersi, di “diluirsi” tra gli altri, nascondendosi per paura o magari diventando come loro, oppure, all’opposto, di “combattere” gli altri, prigionieri dell’illusione di essere migliori e di non potersi “sporcare” con loro!
Gesù non teme di affermare che, senza la presenza dei suoi discepoli in seno al mondo e alla storia degli uomini, il mondo non avrebbe sapore e sarebbe immerso nelle tenebre: ciò, evidentemente, dipende dal fatto che i discepoli del Signore hanno una vocazione precisa, ossia quella di essere il prolungamento e l’attualizzazione di Cristo in ogni luogo e in ogni epoca della storia. Cogliere il rapporto intimo tra Gesù e i suoi discepoli, tra la sua e la loro identità, tra la sua e la loro missione, aiuta a comprendere il senso della “umile” presenza cristiana nel mondo: il Figlio di Dio, infatti, è venuto a salvare il mondo restituendo all’uomo quella somiglianza con Dio che il peccato ha deformato e deforma.
Gesù non ha distrutto per ricostruire “ex novo”, ma ha “ricreato” dal di dentro, facendo emergere dal profondo dell’uomo quella bellezza che già lo abitava, in quanto creatura pensata e fatta a immagine di Dio. Quando, dunque, Gesù dice ai suoi che essi sono sale e luce, egli sta dicendo loro che essi non dovranno fare altro che esaltare il sapore di ciò che ha già un suo sapore e di rendere visibile ciò che ha già colori e forme ben definiti: sale e luce non fanno che consentire che “venga fuori” quello che “è già dentro” e lo fanno non come condizioni “accessorie”, ma indispensabili (senza sale il sapore resta indefinito; senza la luce il colore e la forma risultano impercettibili). È in questa capacità di “far emergere” che il sale e la luce svolgono il proprio “umile servizio” nei confronti di ciò a cui sono rivolti e che è, già in sé, portatore di un bene e di un bello.
Gesù ha realizzato ciò – ha, cioè, restituito sapore e visibilità al bello dell’uomo – mettendosi dal lato dell’uomo e assumendone anche la fragilità, al cuore della quale ha portato la sua solida e consapevole “scelta per l’Altro e per l’altro”: è in questo “essere per” che Gesù ha indicato la via dell’essere davvero uomini, ma anche la verità di una vita che voglia dirsi veramente umana. Così, anche i discepoli di Cristo sono chiamati a vivere la propria presenza nel mondo secondo questa “pro-esistenza”, che, mentre li rende davvero uomini, li rende anche via e strumento di umanità per gli altri. Proprio come l’immagine giovannea del “chicco di grano”, il “sale” e la “luce” dicono una uguale necessità, tutta cristologica, di “perdersi” per dare frutto.
Gesù lo ha mostrato: ora tocca ai suoi assumerlo!