Noemi Riccitelli – Se si cerca una foto di Lidia Poët sul web, una delle prime a comparire è quella che la ritrae giovane con uno sguardo sicuro e sbarazzino rivolto all’obiettivo.
Poco nota alla cronache, Lidia Poët, vissuta a Torino tra ‘800 e ‘900, sicura di sé lo era davvero: è stata, infatti, la prima donna ad entrare nell’Ordine degli Avvocati, benché a 65 anni, dopo una strenua e coraggiosa lotta per l’affermazione dei suoi diritti come professionista e come donna.
Infatti, nonostante avesse già conseguito la laurea in giurisprudenza a 26 anni e superato tutte le prove stabilite dalla legge per ufficializzare l’iscrizione all’Ordine, la Corte di Cassazione dichiarò illegittima la sua richiesta ed emise una sentenza che confermava il provvedimento di cancellazione emesso già dalla Corte d’Appello.
Tutto ciò solo perché donna in un contesto sociale, politico e lavorativo in cui la presenza del “gentil sesso” non era contemplata affatto: “l’avvocatura è un ufficio nel quale le femmine non devono immischiarsi” precisa il giudice che pronuncia il provvedimento.
La legge di Lidia Poët, prodotta da Groenlandia, è diretta da Matteo Rovere e Letizia Lamartire, i quali insieme agli sceneggiatori, Guido Iuculano, Davide Orsini, Elisa Dondi, Daniela Gambaro e Paolo Piccirillo, hanno scoperto il personaggio di Poët per caso, nel corso di ricerche e approfondimenti sulla Torino di fine ‘800.
La serie è su Netflix dal 15 febbraio, in 6 episodi di 40/50 minuti circa ciascuno.
Torino, fine ‘800. Lidia Poët (Matilda De Angelis) ha da poco ricevuto la notifica di cancellazione dall’Albo degli Avvocati, al quale era regolarmente iscritta, con la motivazione per cui le donne non sono ritenute in grado di svolgere la carriera forense.
Umiliata e arrabbiata, Lidia è costretta a chiedere ospitalità al fratello Enrico (Pierluigi Pasino), anche lui avvocato, con il quale inizia a collaborare, potendo così continuare a lavorare ai suoi casi sotto la copertura di assistente.
Il contesto in cui si trova ad operare, la porta necessariamente al confronto con uomini diversi, che non sono, tuttavia, sempre sgradevoli incontri, come accade per il giornalista Jacopo Barberis (Eduardo Scarpetta), in più occasioni spalla dell’avvocata, e Andrea Caracciolo (Dario Aita), suo amante.
Astuta, irriverente, testarda: queste le qualità che emergono dal profilo di Lidia Poët tratteggiato dai registi Rovere e Lamartire.
Imprescindibili caratteristiche per chi ha dovuto muoversi abilmente in una fase storica in cui le donne erano sottostimate, valutate come esseri non in grado di oltrepassare i confini domestici: per loro, infatti, due erano le strade da percorrere, un buon matrimonio o, per le più istruite, l’insegnamento.
Lidia Poët, invece, è stata pioniera di istanze femministe, credendo fermamente nell’autodeterminazione femminile, battendosi non solo per sé stessa, ma per tutti gli emarginati dalle definite conformità sociali ed etiche del tempo, perseguendo ideali di giustizia, diritti ed eguaglianza.
Non solo, ella ha saputo apportare anche intelligenti innovazioni nella pratica forense stessa, svilendo di fatto le assurde convinzioni degli uomini del tempo appartenenti alla categoria.
Tuttavia, La legge di Lidia Poët ha il pregio di non cedere alla tradizionale, monolitica biografia, ma è una multiforme e interessante narrazione investigativa: infatti, ogni episodio affronta casi diversi, in cui si sviluppano ulteriormente anche le vicende personali della protagonista, seguendo di fatto la già consolidata struttura narrativa del giallo portato sul piccolo schermo, approvata dal grande pubblico anche in altri contesti televisivi più mainstream.
In questo modo, la serie non si presenta come una classica (e forse noiosa) esaltazione di un personaggio storico, procedendo per valori assoluti, con il rischio di un racconto vuoto e lontano, ma una trama vivida in cui il pregio del personaggio stesso emerge nella concretezza delle sue azioni, appassionando lo spettatore.
La sceneggiatura, prendendo le mosse dalle poche informazioni riguardo la realtà personale di Lidia Poët, tratteggia vicende e personaggi perlopiù di fantasia, ed è un ricamo svelto e leggero tra un episodio e l’altro, tra battute di spirito, svolte brillanti e colpi di scena che permettono di seguire la trama e farne oggetto di un piacevole binge-watching (letteralmente, una “maratona” di visione).
La chicca della serie è, inoltre, un cast giovane, il cui talento si afferma progressivamente di produzione in produzione.
Matilda De Angelis è il volto della protagonista, che ha saputo interpretare con spirito, convinzione e tono una personalità sui generis libera e moderna, anche nella vita privata;
efficace il suo legame sullo schermo con Pierluigi Pasino, il fratello di Lidia, con scambi di battute che diventano, spesso, siparietti vivaci e divertenti, ma anche duri scontri tra due opposte visioni.
Ancora più riuscito il ménage con Eduardo Scarpetta, che interpreta un giornalista della Gazzetta Piemontese, quasi un Watson di Poët: Scarpetta rende il suo personaggio con verve e originalità.
Tra il cast, anche Sara Lazzaro, nel ruolo di Teresa, la tradizionalista cognata di Lidia e la giovanissima Sinéad Thornhill (i cui lineamenti sembrano proprio quelli di un viso da quadro ottocentesco) nel ruolo di Marianna Poët, nipote sostenitrice della zia.
Una menzione particolare va alle scenografie (di Tonino Sera) e ai costumi (di Stefano Ciammitti), che riproducono fedelmente gli stili e le ambientazioni del tempo.
I costumi, soprattutto, sono opere uniche e preziose, con dettagli pregevoli e colori brillanti, che è possibile ammirare anche dal vivo in mostra al Museo Nazionale del Cinema di Torino fino al 20 febbraio.
La legge di Lidia Poët è un progetto valido ed interessante: una visione contemporanea quella dei registi Matteo Rovere e Letizia Lamartire, che a partire dalla figura di Lidia Poët affrontano un tema forte e attuale, che in realtà non dovrebbe neanche sussistere, quello della questione di genere nella società.
Così, l’Ottocento si fa metafora dell’oggi, con usi, costumi e modi di esprimersi più vicini a chi guarda, che però non snaturano l’ispirazione storica, ma anzi la rendono affascinante e appetibile anche al pubblico delle nuove generazioni, veicolandolo in modo gentile e curioso, perché no, anche sulla strada di altre personalità del dibattito sulla rappresentanza femminile: Jane Austen, Virginia Woolf, Sibilla Aleramo, Mary Shelley.
La convinzione è la stessa espressa da Lidia Poët nella serie: “Verrà un secolo in cui le dispute sulla dignità femminile suoneranno grottesche”.