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Commento al Vangelo, VII domenica del Tempo ordinario: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”

Commento al Vangelo, VII domenica del Tempo ordinario, Anno A

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di Padre Gianpiero Tavolaro
Comunità Monastica di Ruviano (Clicca)

VII domenica del Tempo ordinario – Anno A
Lv 19,1-2.17-18; Sal 102; 1Cor 3,16-23; Mt 5,38-48

Le parole di Gesù, con sui si conclude il capitolo quinto dell’Evangelo di Matteo («Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste»), fanno eco alle parole con cui si apre il capitolo diciannovesimo del libro del Levitico («Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo»: 19,2) e, come queste, hanno un valore fortemente rivelativo non solo in senso teo-logico, ma anche antropo-logico, perché mentre dicono qualcosa di Dio (la sua perfezione e la sua santità) mostrano anche all’uomo ciò che egli può essere in Lui.

Giotto di Bondone (1267 ca. – 1337): Cristo percosso davanti a Caifa, 1303-1305, Padova, Cappella degli Scrovegni

La possibilità di santità e di perfezione non va intesa, infatti, come una capacità umana “assoluta”, ma come un’opera di Dio che ama l’uomo e lo salva, rendendolo capace di un compimento altissimo e inimmaginabile.

Prima l’evangelo e poi la morale: questi versetti di Matteo fanno ben comprendere quanto sia essenziale partire dalla rivelazione di Dio e dal suo amore preveniente per realizzare la giustizia superiore, che è il connotato primario del discepolo di Gesù.

Se non ci fosse prima un “evangelo” – vale a dire l’annuncio della buona notizia dell’amore di Dio per gli uomini poveri, peccatori e lontani –, non vi sarebbe per l’uomo la concreta e reale possibilità di quell’amore per il nemico, che Gesù scandalosamente e senza mezze misure chiede.

A rendere particolarmente “gravose” le parole di Gesù sta il fatto che egli non promette e non garantisce ai suoi che, amando il nemico, questi viene trasformato in amico benevolo. Gesù ha chiesto semplicemente di amare il nemico, proprio nella sua condizione di “nemico” (che è condizione di ostilità e di avversità), senza usare i suoi medesimi mezzi per difendersi dalla sua violenza. Per proclamare questo, Gesù rigetta anche la legge del “taglione”, che nell’Antico Testamento era stata proposta come legge “mite”, volta a contenere l’esplodere e la sproporzione della vendetta (a un occhio corrisponde un occhio e non due o un’altra parte del corpo).

Per Gesù una tale mitigazione non è sufficiente, perché è la vendetta in sé a essere aberrante, anche se minima. Se non ci fosse la rivelazione di un Dio che, con il suo amore, previene e perdona sempre, senza nulla chiedere e senza neanche attendere la conversione per amare, la richiesta di Gesù, che Matteo ci trasmette, risulterebbe assolutamente improponibile, rispetto a quella “naturale inclinazione” dell’uomo, che è spinto a reagire e a rispondere con violenza al torto subito, usando le medesime armi dell’avversario (è in questo senso che Gesù chiede di non opporsi al malvagio).

Porgere l’altra guancia, allora, significa assumere la violenza dell’altro su di sé, perché lì essa si spenga! Se il percosso percuote, perpetua il male e la violenza: Gesù ha mostrato, invece, la “potenza” che risiede nel fermare su di sé il male, perdonando, senza minacciare vendetta (cf. 1Pt 2,23) e amando chi, come nemico, non è assolutamente amabile.

Il discepolo di Gesù non può fare diversamente. Gesù prospetta all’uomo una possibilità “altra”, fondandola sulla rivelazione di un Dio che ama sempre per primo, «facendo sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni e facendo piovere sui giusti e sugli ingiusti»: quello che Gesù narra è un Dio che ama l’uomo nella sua inimicizia.

Solo dove l’evangelo è colto in pienezza può iniziare il “mondo nuovo”, in cui il discepolo (rivestitosi dell’ “uomo nuovo”) è reale differenza rispetto al “mondo vecchio” (ancora dominato dalle logiche dell’ “uomo vecchio”).

Il culmine della differenza cristiana è proprio qui, in questi versetti provocatori di Matteo: l’amore per i nemici, da vivere non come alternativa all’amore per Dio, ma come sua massima espressione.

Qui giungono al culmine le antitesi del Discorso della montagna («ma io vi dico…»): l’amore per il nemico è la vera differenza tra il cristiano e il mondo, tra il cristiano e gli altri. Per amare l’altro Gesù chiede di superare la giustizia umana, rinunciando al proprio diritto («a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello»): il male, infatti, può essere vinto solo se si è pronti a portare il peso e la fatica dell’altro («Se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due»). Tutte queste parole di Gesù non hanno come motivazione un buon vivere sociale o un desiderio di pacificazione che renda più vivibile la storia: il motivo è Dio e quello che Egli ha fatto per l’uomo.

L’esito sarà anche l’umanizzazione della storia, ma il motivo per mettersi su una via così contraddittoria per le logiche del mondo non è che Lui.

Per il discepolo di Cristo il motivo per vivere secondo queste parole dell’evangelo non può essere altro che Cristo stesso e la meta non è altro che la santità di Dio.

 

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