di Padre Gianpiero Tavolaro
Comunità Monastica di Ruviano (Clicca)
Domenica delle Palme – Anno A
Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11; Mt 26,14 – 27,66
«Il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli». Le parole che, secondo l’evangelista Matteo, il popolo pronuncia in risposta al gesto di Pilato di lavarsi le mani, in segno di declino di ogni responsabilità per la morte di Gesù, aiutano a cogliere il senso del mistero che la comunità cristiana si accinge a celebrare nel corso della Settimana Santa, fino a quel culmine che è costituito dal triduo pasquale. Queste parole della folla sono al cuore del racconto matteano della passione: parole di benedizione, in realtà, e non di maledizione, con le quali Matteo intende richiamare il rito espiatorio dello Yom kippur (Giorno dell’espiazione), che prevedeva che il sangue del capro espiatorio (sul quale il Gran Sacerdote aveva caricato tutti i peccati del popolo) venisse asperso sul popolo come segno della misericordia di Dio e del suo perdono verso il suo popolo.
Per Matteo, è il sangue di Cristo a ricadere in primo luogo su Israele, facendolo oggetto di misericordia e perdono: il popolo della Prima Alleanza, lo comprenda o meno, è il primo destinatario di quell’amore di Dio che perdona nel sangue di Gesù. Quelle parole, però, hanno valore anche per la comunità della Nuova Alleanza: anche i credenti in Cristo possono sentire quelle parole come pronunciate su di loro. Il sangue di Cristo, infatti, ricade su essi come il sangue dello Yom Kippur e, come scrive Giovanni, «ci purifica da ogni peccato» (1Gv 1,7). Questa immagine aiuta a cogliere come, essenziale per la celebrazione dei misteri cristiani e, in particolare, della Pasqua, che di questi misteri è il cuore, è lo stare alla presenza di Dio, lasciandoci “impregnare” dalla sua misericordia, che ha, per Dio stesso, prima e più ancora che per i credenti, un prezzo altissimo: quello del versamento del proprio sangue; quello della “perdita” della propria vita.
Per stare davanti a tanto amore, occorre deporre ogni pretesa di fare qualcosa per Dio, lasciando a Lui il primato assoluto e riconoscendo quanto Egli stesso compie a favore del suo popolo. Entrare nella Settimana Santa significa aprirsi a questo primato di Dio e la Domenica delle Palme chiede al credente di fare (o, meglio, di farsi) spazio per la Pasqua di Gesù, aprire le porte della propria “città” al suo ingresso da Signore mite e paziente: “farsi spazio” per la sua Pasqua è accoglierlo come Signore, nella certezza della sua grazia, ma anche della propria fragilità. Forse, è proprio in ciò che risiede la fatica della Pasqua: nell’assunzione dell’umana debolezza, chiamata a incontrare la potenza “debole” del Dio di Gesù. Eppure, proprio in questo sta la grandezza del mistero celebrato: con esso, al credente è data la possibilità di varcare la soglia di una settimana in cui è custodito il senso di tutta la propria vita, in cui, cioè, è inscritta la possibilità di vivere la vita sperando e non disperando, amando e non odiando, facendo dei propri giorni un tempo in cammino verso il compimento, verso il fine, e non verso la fine.
Tutto dipende da come si varca questa soglia: chi vi entra con stupore e con amore – lasciandosi ferire e interrogare, lottando con le proprie miserie e avvertendo la Croce di Cristo piantata proprio al cuore delle proprie iniquità –, questi potrà vivere la propria vita da uomo vero, come il Padre l’aveva pensato fin dall’“in-principio”. Solo chi è disposto a seguire Gesù, l’uomo vero, fino all’esito dei suoi giorni, potrà essere contagiato dalla sua alterità che salva. E perché ciò avvenga, occorre schierarsi per Lui: nessuna neutralità è consentita di fronte alla Passione! Se non si ha il coraggio della scelta (che è scelta di “perdersi” per essere “trovati” da Lui), si rischia di annunziare un Regno che somigli troppo ai regni di questo mondo. La Passione è, invece, capovolgimento di tutti i regni mondani: Matteo fa compiere al suo lettore/ascoltatore un viaggio, dal Cenacolo al Getsemani, fino al Golgota, lì dove, nelle tenebre più profonde e fino al grido scandaloso dell’abbandono da parte del Padre, si staglia la Croce di Cristo, luogo paradossale di rivelazione di Dio.
È così che Dio si è raccontato, in Gesù, consegnandosi all’uomo nell’orrore senza nome della croce, nel buio della notte. Lì, in quel modo così “fragile”, Egli ha rivelato la potenza della sua luce che, entrando al cuore delle tenebre dell’uomo, gli ridona speranza e senso. Il paradosso della Croce di Cristo è deposto lì e di lì la storia è segnata e divisa: da un lato il mondo, con le sue logiche di morte ed il suo rifiuto (i capi, Pilato, il popolo), dall’altro una (possibile) nuova umanità, capace di riconoscere nel Crocefisso la luce di Dio, rappresentata, incredibilmente, dai più lontani, ossia il Centurione e quelli che facevano la guardia con lui. Solo costoro riescono a dire: «Davvero costui era Figlio di Dio».
Il tutto in una fede nuda, essenziale, decisiva.