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Un adolescente su 4 non comprende il testo che legge

Gli studenti italiani scrivono tanto su computer o smartphone ma arrancano nella comprensione. Secondo l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), un ragazzo di 15 anni su cinque non sa leggere in maniera fluida un testo e uno su quattro non lo comprende

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Il risultato deriva dall’indagine internazionale, il cosiddetto Pisa (Programme for international student assessment) svolto ogni tre anni, che non solo valuta la lettura, ma anche la competenza in matematica e scienze. I commenti di Simona Ferrari, coordinatrice del Centro di ricerca sull’educazione ai media, all’innovazione e alla tecnologia (Cremit), docente di Didattica generale all’Università Cattolica, e Cristiano Termine, neuropsichiatra infantile, docente all’Università dell’Insubria e membro della Società italiana di neuropsichiatria dell’infanzia e adolescenza (Sinpia).

Elisabetta Gramolini – Gli studenti italiani scrivono tanto su computer o smartphone ma arrancano nella comprensione. Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), un ragazzo di 15 anni su cinque non sa leggere in maniera fluida un testo e uno su quattro non lo comprende. Il risultato deriva dall’indagine internazionale, il cosiddetto Pisa (Programme for international student assessment) svolto ogni tre anni, che non solo valuta la lettura, ma anche la competenza in matematica e scienze. Per Simona Ferrari, coordinatrice del Centro di ricerca sull’educazione ai media, all’innovazione e alla tecnologia (Cremit), docente di Didattica generale all’Università Cattolica, i dati ci ricordano la necessità di integrare le due culture che oggi coesistono: una del libro, l’altra dello schermo. Spiega: “Il digitale abilita ad avere un pensiero veloce, che aiuta a prendere decisioni rapide, mentre il libro abitua a ponderare, giocando sui processi di attenzione, memoria e dimensione volitiva.

Pensiero veloce e pensiero lento sono fondamentali per la nostra sopravvivenza e devono coesistere entrambi”. Il problema per l’esperta è quando la scuola, specie alla secondaria, punta esclusivamente sulla performance e segue il ritmo accelerato imposto dalla società. “Ci dimentichiamo che l’educazione è un processo lento, che richiede tempo”. Quindi per invertire il dato bisogna leggere di più? Nient’affatto, casomai, meglio. “I risultati dell’Ocse – risponde – hanno sempre riportato come il problema della lettura debba centrarsi sulla dimensione qualitativa e non quantitativa della lettura. Come evidenziato dalle ricerche di Wirginia Woolf, la lettura è un processo che prevede una fase fisiologica in cui insegniamo al nostro cervello a leggere, specializzando aree della corteccia celebrale a cui segue la “lettura profonda” in cui attiviamo la comprensione sul testo che richiede una fase cognitiva ed una fase emotiva.

Spesso ci preoccupiamo solo dell’atto meccanico-fisiologico del leggere e non accompagniamo nel processo di costruzione di significato. Solo nel momento della comprensione attiviamo l’interpretazione del testo: il lettore si confronta con i tanti significati possibili e si interroga sui diversi punti di vista che i personaggi stimolano. In questo, la lettura consente lo sviluppo dell’empatia, ossia l’essere predisposto all’altro. Come ci ricorda Wolfe: ‘più aumentiamo la lettura, più riduciamo aggressività e predisponiamo ad accogliere l’altro”. Lavorando sulla lettura si lavora sulla competenza emotiva. Questo è maggiormente presente come attenzione nella scuola primaria, ma si tende a dimenticarlo alla secondaria: “l’errore – continua – è pensare che la letto-scrittura sia una competenza che si esaurisce alla primaria mentre occorre procedere per svilupparla in profondità. In particolare, occorre potenziare l’educazione quando il digitale entra in scena portando in gioco altri tipi di processi di lettura e scrittura e nuove forme testuali.

I ragazzi in questa fase non vanno lasciati soli, vanno educati. Nella cultura del libro siamo abituati a pensare prima cosa scrivere e poi a organizzare mentalmente il processo narrativo. Nel digitale, le forme di scrittura risultano sintetiche, il testo si costruisce per accumulazione. Si tratta di modi diversi”. Ancora una volta, che fare? Bisognerebbe “educare a leggere e scrivere nel digitale – suggerisce la professoressa – analizzando le forme e tornando a focalizzarsi sul processo di creazione di significato”. Per Cristiano Termine, neuropsichiatra infantile, docente all’Università dell’Insubria e membro della Società italiana di neuropsichiatria dell’infanzia e adolescenza (Sinpia), è un bene che in Italia oggi l’attenzione alle problematiche scolastiche di apprendimento sia molto alta. “Almeno – ricorda – dal 2010, ovvero dall’introduzione della Legge 170 che ha rivoluzionato la considerazione per la dislessia, la difficoltà a leggere in maniera rapida e accurata, e per gli altri disturbi specifici dell’apprendimento. Nella popolazione italiana sappiamo che il disturbo ha una prevalenza del 3,5%. La percentuale però non corrisponde al dato dell’indagine che riporta una difficoltà negli studenti pari a uno su cinque.

Nel campione, che è molto ampio, saranno inclusi studenti con dislessia e disturbo della comprensione del testo. A questi si aggiungono quei ragazzi che arrivano da esperienze di lettura poco intensive e da percorsi scolastici che durante la pandemia da Covid-19 sono stati meno stimolanti, come dimostrato da alcuni studi che hanno dimostrato come il ritmo di acquisizione della lettura si sia ridotto in quei mesi”. C’è da dire che i giovani scrivono molto sui loro smartphone, “ma la cura dei messaggi – commenta il docente – non è quella riservata ad un testo scritto”. Il mondo digitale non aiuta perché li abitua a guardare mini-video da 10 secondi, “un approccio – commenta – che con il testo scritto non riesce a conciliarsi”. Molti ragazzi non comprendono il testo in quanto l’attenzione non è sostenuta a sufficienza: “nelle indagini come il Pisa, molti studenti sbagliano a indicare la risposta giusta perché non prestano attenzione alle domande o alle possibili risposte”.

Dare la colpa solo ai social però sarebbe un errore secondo l’esperto. “Le difficoltà derivano da sistemi scolastici a volte poco stimolanti, scarsamente capaci di avvicinarsi ai ragazzi. L’uso delle tecnologie ha un ruolo, ma sappiamo che il fattore umano nell’insegnamento è rilevante e la scuola d’oggi espone a contesti non sufficientemente attrattivi”. “La scuola – ribadisce – dovrebbe parlare un linguaggio più vicino a quello degli studenti. Il gap con gli insegnanti si allarga sempre di più perché, a volte, ci sono docenti attempati, che faticano a sintonizzarsi, altre volte, gli insegnanti più giovani sono in linea, ma non hanno ancora l’esperienza per essere efficaci dal punto di vista educativo. Bisogna ripensare la formazione dei docenti, soprattutto nei cicli di istruzione superiore. Dico sempre che ci sono disturbi dell’apprendimento ma anche ‘disturbi dell’insegnamento’ più difficili da rilevare”.

Fonte SIR

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