Armando Pepe – Il re delle Due Sicilie Ferdinando II, dissimulando un indulgente atteggiamento verso le esigenze che stavano alla base della rivoluzione del 1848, molto probabilmente nel timore di esserne travolto, elargì ai sudditi una carta costituzionale, modellata sull’esempio francese del 1830 e fondata sul principio bicamerale, in cui si contemplavano una Camera dei pari, di nomina regia, e una Camera dei deputati, eletta in base a suffragio censitario, che, iniziando i lavori il primo luglio, secondo la considerazione di Guido De Ruggiero, «seppe difendere l’ultima trincea della libertà con fermezza ed abnegazione, soccombendo alla fine nell’impari lotta, ma dando al paese un esempio memorabile, che dieci anni dopo doveva dare i suoi frutti». Costituzione che, nonostante i numerosi indirizzi rivolti al sovrano per abolirla, non fu mai formalmente abrogata, ma lasciata cadere nel dimenticatoio. Piuttosto complicata risultò la formazione del parlamento, in quanto, dopo le prime elezioni tenute ad aprile del 1848, se ne tennero altre il 15 giugno dello stesso anno. L’attività parlamentare fu limitata alla sola seduta d’insediamento, il 10 luglio, venendo le assise rimandate di volta in volta, fino alla risolutiva liquidazione del 12 marzo 1849.
Il processo unificativo italiano
La narrazione delle imprese militari che portarono al processo unificativo italiano, nell’epopea risorgimentale, riveste un ruolo di grande suggestione. Le convergenti tensioni verso il comune obiettivo della costruzione nazionale raggrupparono molteplici identità politiche e culturali. Avendo la rivoluzione costituzionale del 1848 definitivamente separato dal trono la borghesia più evoluta dello stato duo-siciliano, democratici e liberali collaborarono insieme alla realizzazione del nuovo stato italiano. Mentre la dinastia sabauda, partecipando attivamente alla Prima guerra d’indipendenza, impersonò i concetti di unità e solidarietà di patria, al contrario, la dinastia borbonica, fedele alla linea assolutistica e appiattita nel dialogo diplomatico sulle posizioni tendenzialmente reazionarie e conservatrici della Russia zarista e dell’Impero asburgico, non prese alcuna posizione se non quella di durare il più a lungo possibile. Il fragile equilibrio che teneva in vita il Regno duo-siciliano si ruppe perché il partito liberale meridionale, composto in gran parte dalle persone più influenti a livello locale e con solidi addentellati, non tollerava più la sottomissione alla dinastia borbonica, considerata retrograda e anacronistica.
Le interpretazioni degli storici
Per Rosario Romeo, il crollo del Regno borbonico era da anticiparsi idealmente al 1848, quando nelle coscienze più sensibili si consumò la frattura irrimediabile tra classe dirigente e dinastia, a causa «dell’animo retrivo e del bigottismo crescente del re Ferdinando II e dell’impreparazione e incapacità del successore Francesco II». In aggiunta, per Romeo, erano lampanti «la rilassatezza dello Stato e lo scarso prestigio della monarchia, screditata all’estero dalla violenta propaganda dei liberali». Articolando un ragionamento di vasta portata sull’intero quadro nazionale d’epoca risorgimentale, Alfonso Scirocco scrisse che Ferdinando II formò un esercito che «finì con l’essere impiegato soprattutto per il mantenimento dell’ordine interno e ciò ne infiacchì lo spirito». Ruggero Moscati, conducendo un’analisi disincantata sulle vicende degli ultimi re borbonici, notò che «Ferdinando II, nella fiera coscienza della propria indipendenza, nel suo ostinato isolamento, nella sua stessa tenace grettezza, aveva mostrato di saper dominare i vecchi congegni amministrativi dello Stato», a differenza di Francesco II, che non riuscì a porre rimedio all’inesorabile crollo del proprio Regno. Paolo Macry sostiene la tesi dell’implosione del Regno borbonico, nell’ultimo stadio quasi acefalo poiché privo di coordinate univoche, rilevando che a Napoli nel 1860 «anche sul piano geopolitico quel che si respira è una condizione indefinita, informale, spesso al limite della logica. Non si capisce più chi siano gli avversari, tanto meno chi siano gli alleati». Uno sguardo critico sul Risorgimento, in particolare sul periodo di transizione dal mondo borbonico al sabaudo, fu quello di Antonio Gramsci, che definì «rivoluzione mancata» la non coincidenza di interessi tra borghesia e proletariato, ragion per cui, cambiato il regime, le condizioni esistenziali dei lavoratori dell’industria e dell’agricoltura rimasero invariate. Disambiguando il significato profondo del Risorgimento dalle incrostazioni di natura politico-filosofica, Rosario Romeo riprese e contestò le tesi gramsciane, da mettere accanto «a tutte le varie forme di revisionismo risorgimentale che si sono succedute e che sono tutte caratterizzate dal ricorso a un astratto ideale morale e politico, al quale arbitrariamente si presume che la storia realmente accaduta avrebbe dovuto adeguarsi». Lo storico siciliano percepì e mise in evidenza «il fondamentale anacronismo di questo criterio di giudizio, che non nasce dalla concreta storia del tempo, ma dai più tardi problemi che allo storico si pongono». Nell’estate del 1860, Francesco II, dall’incalzare dei precipitosi eventi fu costretto, come ha posto in evidenza Marco Meriggi, «a riattivare in tutta fretta la costituzione che Ferdinando II nove anni prima aveva congelato, ma non ufficialmente abolito. Calzare, ormai per la terza volta nel giro di quarant’anni, la maschera della monarchia costituzionale era l’ultima carta da giocare per cercare di ottenere la sopravvivenza dei Borbone sul trono e, insieme ad essa, il mantenimento dell’indipendenza del Regno». Era ormai troppo tardi, i tempi stavano cambiando e, stavolta, per sempre.
L’apporto di Terra di Lavoro
Anche nel 1848 la provincia di Terra di Lavoro espresse deputati di vigorosa tempra intellettuale e di riguardevole caratura come Domenico Capitelli, originario di San Tammaro, filosofo del diritto, per connaturata autorevolezza proclamato presidente dell’Assemblea parlamentare, il casertano Francesco Saverio Correra, giureconsulto, avvocato civilista, in seguito dichiarato «attendibile» per le sue idee liberali, il napoletano Carlo Poerio, appartenente ad una «famiglia di patrioti», secondo la celebre definizione crociana, Antonio Ciccone, di Saviano, illustre clinico e docente universitario, appartenente a diverse accademie nazionali, direttore della pubblica istruzione a Napoli durante il governo dittatoriale di Giuseppe Garibaldi, e infine senatore del Regno sabaudo. Si annoveravano ancora Giovanni Semmola, di Brusciano, accademico e medico di chiara fama, Gaetano Del Giudice, di San Gregorio d’Alife, proprietario di estese terre e cospicue greggi, governatore con pieni poteri della Capitanata durante la guerra per l’unificazione italiana, in cui fu molto attivo contro il brigantaggio, deputato al Parlamento postunitario. Infine, c’era il piedimontese Vincenzo Coppola, benestante, letterato, poeta, medico e studioso di agopuntura, segnalato fra gli attendibili. Il dottor Coppola, trovandosi in villeggiatura sull’isola d’Ischia, dato che doveva andarci il re Ferdinando II, fu fatto ritornare nel proprio paese per misura di pubblica sicurezza. Nel corso dell’ultimo decennio del Regno duo-siciliano, mantenendo il Governo un alto grado di vigilanza sociale, si inasprirono i controlli di polizia, ma nuove leve incrementarono le schiere che, all’atto della guerra per l’unificazione, si trovarono ad essere subito operative, come la legione del Matese, il cui assertore fu Beniamino Caso, nativo di San Gregorio d’Alife. Educato in collegio a Maddaloni, erede di notevoli cespiti familiari, Caso a Napoli ebbe modo di stringere preziosi legami e agire d’intesa con l’ambasciatore del regno di Sardegna Salvatore Pes, marchese di Villamarina. Personaggio di primo piano era Salvatore Pizzi, nato a Procida ma capuano d’adozione, laureato in giurisprudenza all’università di Napoli, avvocato, traduttore dal tedesco di opere storiche, filosofiche e pedagogiche, già fervente mazziniano e iscritto alla Giovine Italia, che fu considerato dal 1848 in poi, unanimemente, capo del partito liberale in Terra di Lavoro.
Bibliografia
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Fonte storiaglocale.com