di Padre Gianpiero Tavolaro
Comunità Monastica di Ruviano (Clicca)
XII domenica del Tempo ordinario – Anno A
Ger 20, 10-13; Sal 68; Rm 5,12-15; Mt 10,26-33
A paralizzare l’uomo, la sua vita, la sua libertà non sono tanto (o, per lo meno, non sono soprattutto) fattori esterni, quanto piuttosto la “paura”, che lo assale dal di dentro: se la paura, in positivo, mette in guardia l’uomo dai possibili pericoli nei quali egli si imbatte, è per paura che l’uomo, di fronte a un pericolo reale o presunto, rischia di non trovare in sé le risorse sufficienti per affrontare ciò che lo preoccupa, fino al punto da rinchiudersi in sé e, magari, fuggire da ciò che gli sembra di non riuscire a gestire.
Ci si trova, dunque, a essere abitati e “posseduti” dalla paura, ogni volta che si ha l’impressione di trovarsi di fronte a qualcosa di rischioso, a un qualcuno di ostile, dinanzi a situazioni o a persone su cui non si riesce a esercitare un controllo: è solo l’esperienza dell’amore – il sentirsi, cioè, all’interno di una relazione d’amore entro la quale è possibile vivere l’abbandono fiducioso nei confronti dell’altro che si ha di fronte e accanto – che libera l’uomo dalla paura, perché lo fa sentire dentro un luogo “protetto”, al sicuro da pericoli e minacce («Nell’amore non c’è paura [CEI: timore], al contrario l’amore perfetto scaccia la paura [CEI: timore]», 1Gv 4,18). Nell’inviare i suoi discepoli «alle pecore perdute della casa d’Israele» (Mt 10,6), è proprio dal restare prigionieri della paura che Gesù mette in guardia i suoi, rivolgendo loro, per ben tre volte, l’imperativo «non abbiate paura (CEI: non temete)» (vv. 26, 28 e 31): i discepoli stessi potranno sottrarsi agli inganni paralizzanti della paura solo a partire dall’originaria esperienza dell’amore che è all’origine della loro missione, perché è il fondamento della loro relazione con Dio, attraverso la mediazione di Gesù.
Per questo Gesù li invita a non fermare la loro attenzione su ciò che potrà essere loro fatto da coloro cui essi sono inviati (e che, in ogni caso, non è precisamente ponderabile prima che accada): qualunque cosa essi potranno eventualmente subire, nulla dovrà fermare la corsa della parola che essi sono chiamati a portare, perché nulla potrà fermare la corsa di un amore che non può essere taciuto. La forza dell’annuncio di cui parla Gesù non risiede nel fatto che la parola annunciata li sottrarrà ai rischi cui essi vanno incontro: non è in gioco qui la logica del “potere” e del “più forte”; non si tratta di “illudere” i discepoli circa gli esiti della loro missione.
L’esperienza dell’ostilità e del rifiuto della missione dei discepoli si traduce, anzitutto, nella possibilità di sperimentare una nuova e più intima solidarietà con Gesù e con lo stile del suo ministero: nel rifiuto, i discepoli potranno sperimentare, infatti, lo stesso rifiuto vissuto dal loro Maestro; un rifiuto che, per quanto doloroso, è l’altra faccia della scelta, del tutto libera e consapevole, di non rinunciare alla proclamazione di una parola che, per quanto scomoda e faticosa da assumere, è e resta parola di vita da assumere, a sua volta, nella libertà, senza costrizione o condizionamento alcuno. La fatica della missione è tutta lì: nel fatto che essa si fonda su di una parola che interpella il destinatario, esigendo la morte di quell’uomo vecchio che costituisce per ciascuno la parte meno autentica di sé, ma anche la più difficile da lasciare, perché dominata da quella philautía, da quell’amore smodato ed egocentrico di sé, dietro il quale è facile nascondersi per sottrarsi alla fatica di vedere e assumere l’A/altro. Eppure, proprio in questa “morte” di qualcosa di sé, la parola annunciata può esprimere tutto il proprio potenziale salvifico, la cui radice altro non è che l’amore di quel Dio a immagine del quale l’uomo è stato fatto e del quale la philautía è la più grande contraddizione.
Solo il discepolo che abbia fatto esperienza di questa morte e della vita che ne consegue potrà affrontare la missione affidatagli da Gesù senza paura, perché avrà combattuto “dentro” la più ardua e la più autentica delle battaglie che un uomo possa affrontare: quella con il proprio “io” e con le sue ipertrofie.