di Padre Gianpiero Tavolaro
Comunità Monastica di Ruviano (Clicca)
XV domenica del Tempo ordinario – Anno A
Is 55, 10-11; Sal 64; Rm 8, 18-23; Mt 13, 1-23
La parabola del seminatore nasce dallo scandalo – già vissuto dalla prima comunità riunita intorno a Gesù – dell’apparente inefficacia della Parola, che, per quanto seminata instancabilmente, tante volte sembra lasciare i destinatari immutati e induriti. Se il seme è la Parola di Dio che Cristo è venuto a portare, se esso è l’Evangelo del Regno instaurato con la croce e con la risurrezione di Gesù – e la parabola è scritta dopo gli eventi pasquali, in una Chiesa che già annunciava la Pasqua del Signore –, come mai questa Parola potente non è efficace? Si tratta di un interrogativo tutt’altro che risolto, nella misura in cui la Parola di Dio ha continuato, nel corso dei secoli, a mostrarsi in qualche modo inefficace, aprendo la comunità credente al conseguente rischio – particolarmente evidente nell’oggi della Chiesa – di produrre una gravissima disfunzione nella prassi ecclesiale: tanti, infatti, hanno pensato e pensano che “parlare” (e l’annuncio – per quanto esiga dei testimoni coerenti – ha sempre a che fare con la sfera della parola) non serva e ciò fa sì che, nella Chiesa, gli spazi dati alla Parola e al suo annunzio, si restringano sempre più, a vantaggio di azioni considerate più “efficaci”, più soddisfacenti, più produttive.
Ed ecco che si continua ad assistere a una vita ecclesiale che si struttura troppe volte sul fare, soprattutto quello “doveroso” della carità. Così, tuttavia, si arriva facilmente a trasformare la Chiesa in una sorta di gruppo filantropico, in nulla differente – se non per la sua confessionalità – da un qualunque altro ente benefico. Per uscire da questa impasse, occorre assumere la “debolezza” della Parola non come espressione della sua inefficacia, ma del suo carattere “non costringente”: se la Parola chiede di essere seminata, in quanto “buona notizia” di una novità di vita sempre possibile per l’uomo, stanno al destinatario di questo annuncio l’accoglienza o il rifiuto di questo annuncio ed è la Parola stessa a rispettare una tale libertà, senza la quale l’uomo smarrirebbe il senso della propria umanità.
Chiunque esca a seminare l’Evangelo, d’altra parte, deve guardare all’uscita del Figlio di Dio che è venuto in questo mondo a seminare la Buona Notizia, senza risparmiarsi e senza fare calcoli di efficacia, al punto che la sua morte in croce è apparsa (e appare) a tanti una prova della inefficacia della sua Parola. La parabola del seminatore proclama, invece, una risposta chiara a chi – allora come oggi – è tentato dall’apparente inefficacia della Parola: il seminatore esce a seminare e il frutto della sua semina non è a tempo, non è riservato a un futuro. Non accade, cioè, che oggi c’è un fallimento, una non accoglienza, un rifiuto, un soffocamento della Parola e domani ci sarà l’efficacia, ma la semina avviene contemporaneamente su diversi terreni e il frutto abbondante è contemporaneo al rifiuto, al risultato effimero, al soffocamento della Parola.
La parola seminata dovunque e in abbondanza produce certamente frutto: non lo produce dovunque, ma da qualche parte sì, sempre! Guai a chi ferma la semina perché vede troppi terreni battuti, troppe pietre o troppe spine: colui che fa così dimentica che c’è il terreno buono in cui quella stessa Parola – che è tutta buona, perché tutta viene dalla mano del Figlio di Dio – frutterà oggi vita eterna, ma solo per coloro che, nella libertà, saranno disposti ad accoglierla, a interiorizzarla (custodendola nel profondo di sé) e a lottare per essa (perché a essi non venga strappata). Dinanzi a colui che annuncia la Parola c’è l’uomo, abitato dalla mondanità, ma pure capace di aprirsi alla vita nuova donata in Cristo: la Parola che raggiunge il cuore dell’uomo mette costantemente ciascuno di fronte alla scelta di essere del mondo o di Dio! E, nella libertà della propria scelta, gli uomini finiscono per dividersi in coloro che sono refrattari alla Parola del Regno e alla proposta “scandalosa” dell’Evangelo e in coloro i quali si fanno accoglienti di quel seme piccolo e “stolto”, mettendolo dentro, fino al punto da farlo germogliare.
Gli annunziatori dell’Evangelo, allora, non devono fermare la corsa della Parola a causa delle loro attese e delle loro proiezioni: essi sono invitati a non fermare lo sguardo sugli “insuccessi” e sulle “inefficacie”, ma a volgere con fermezza lo sguardo lì dove la Parola fruttifica, dal momento che, come scrive Isaia (cf. Is 55,10-11), la Parola ha una sua forza, una sua efficacia che non va disconosciuta, ma che non va neanche ridotta ai parametri umani. La spiegazione della parabola risponde all’esigenza della Chiesa di Matteo di elaborare una riflessione sui terreni, vale a dire sulle condizioni di ricettività della Parola: essa risulta indubbiamente utile, a patto che non sposti l’attenzione su colui che riceve la semina, al punto da far dimenticare colui che semina.
Quello che conta è, in ogni caso, che la Chiesa non fermi l’annuncio della Parola, perdendosi in cose più “efficaci” e più “utili” secondo quella mondanità che troppo spesso la abita.