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Commento al Vangelo di domenica 27 agosto. “Voi chi dite che io sia?”

Commento al Vangelo della XXI domenica del Tempo ordinario - Anno A

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di Padre Fabrizio Cristarella Orestano
Comunità Monastica di Ruviano (Clicca)

XXI domenica del Tempo ordinario – Anno A
Is 22,19-23; Sal 137; Rm 11,33-36; Mt 16,13-20

Jean Auguste Dominique Ingres (1780-1867): Pietro riceve le chiavi da Gesù (1820, Montauban, Museo Ingres)

Oggi una domanda su cui davvero “si gioca” tutto: chi è Gesù? Nella nostra cappella monastica questa domanda echeggia ogni giorno dall’alto del nostro Crocifisso dove è scritta in greco proprio questa domanda che Gesù pose ai suoi: «Voi chi dite che io sia?». Una domanda che ogni giorno bisogna porsi per dare quella risposta di senso che è necessaria alla nostra vita.

Matteo aveva già fatto risuonare questa domanda circa l’identità di Gesù altre volte; se l’erano posta i discepoli sulla barca dopo la tempesta sedata: «Chi è costui che perfino i venti e il mare gli obbediscono?» (Mt 8,27) ed è la domanda che, in fondo, si era posta anche Erode Antipa dandosi una risposta: «Costui è Giovanni Battista. È risorto dai morti per questo ha potere di fare prodigi» (Mt 14,2). Dopo questi tentativi di domande, Matteo qui vuole farci giungere una prima vera risposta che però poi avrà bisogno di essere approfondita e compresa.

La domanda è posta da Gesù ai suoi all’estremo confine della Terra di Israele, ai piedi del Monte Hermon, lì dove ci sono le fonti del Giordano. Forse una precisazione geografica non del tutto casuale: la domanda compromettente e la risposta di Pietro vengono pronunciate lì dove c’è vicinanza alle genti, lì dove c’è “apertura” verso orizzonti ulteriori. Insomma, la confessione della messianicità di Gesù avviene nella terra di Israele ma al confine dei territori delle genti.

Le risposte che i discepoli danno circa il parere comune su Gesù non sono solo fandonie o fantasie di tipo superstizioso (come la risposta che Erode dà a se stesso che pensando con terrore ad un Giovanni redivivo e potentissimo) ma hanno anche uno spessore e specie nella citazione di Geremia, il profeta sofferente, contraddetto dai capi e la cui vicenda di profezia e dolore si svolge tutta a Gerusalemme. Come nella scena della Trasfigurazione Mosè ed Elia erano segno della necessità della Scrittura per un “ascolto” pieno della parola di Gesù, qui è ancora la Scrittura ad orientare i cuori verso Gesù, ma il cammino non si può fermare a leggere Gesù solo come un ripresentarsi del passato: bisogna cogliere la “novità” di Gesù! È quanto riesce a fare Pietro.

I tre sinottici (ed in fondo anche Giovanni con la risposta di Pietro dopo lo “scandalo” del capitolo sei: «Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna e noi abbiamo conosciuto e creduto che tu sei il Santo di Dio», Gv 6, 68-69) sono concordi nell’attribuire a Pietro una confessione messianica di grande portata che segna uno spartiacque nella vicenda di Gesù con i suoi. Per Matteo è Pietro (da solo, anche se risponde a nome di tutti!) che riesce a varcare un confine importante: Gesù non è solo uno dei profeti, ma è qualcosa di “nuovo”, sì in continuità con le promesse – e non potrebbe essere altrimenti – ma con un’unicità assoluta: è il Figlio del Dio vivente, colui che solo ed unico può rivelare agli uomini il volto del Padre.

Certamente la confessione di Pietro nell’Evangelo di Matteo ha un forte sapore post-pasquale per la sua forza e precisione, ma, al di là della stretta verosimiglianza storica, a noi interessa cogliere, nel progetto di Matteo, il peso di queste parole ed il loro valore soprattutto ecclesiale.

Pietro riceve da Gesù un elogio che in fondo, se ci pensiamo bene, non è proprio un elogio personale; Pietro non ha alcun merito di quella confessione; in lui, potremmo dire con linguaggio paolino, tutto è grazia; Gesù lo chiama beato, ma perché oggetto della gratuita rivelazione da parte del Padre; secondo alcuni esegeti il nome con cui qui Gesù chiama Pietro, Bar Jona non andrebbe tradotto con Figlio di Giona (d’altro canto in Gv 21,15 si dice che Pietro è Figlio di Giovanni e Giona non è assolutamente un diminutivo di Giona come pure qualcuno ha tentato di dire!), ma proprio con “Barjona” che era il nome di una setta zelota, cioè di un raggruppamento politico di stampo nazionalistico che aveva scelto la strada della violenza per liberare la Palestina dalla morsa romana (Jonas in ebraico significa “colomba” e la colomba era un simbolo di Israele; i barjona sono dunque i “figli di Israele, che desiderano ripristinare la gloria dell’antico Israele). Pietro insomma sarebbe uno proveniente da questo ambiente (altro che solo il placido pescatore del lago! D’altro canto, non è lui che nel Getsemani avrà una spada?); Gesù gli sta dicendo che il Regno lo si conquista per grazia e non con la spada e il “sangue” sparso … Pietro è beato perché si è lasciato afferrare dalla grazia e non perché ha conquistato il Regno con le sue forze e le sue astuzie. Pietro è beato perché tutto ha ricevuto dal Padre e Gesù continua a farlo oggetto di grazia dandogli una responsabilità ed una promessa.

La promessa riecheggia un testo di Isaia (28,14-18) in cui si parla di alleanze con gli inferi nelle quali però gli inferi non prevarranno; è l’alleanza che i re di Giuda tenteranno con l’Egitto contro l’Assiria, alleanza che Isaia giudica diabolica in quanto incapace di fidarsi dell’unica Alleanza che salva, quella con il Signore.

Le parole di Gesù a Pietro hanno lo stesso sfondo fosco in cui il male e le sue potenze attentano all’opera di Dio, ma contengono anche la stessa promessa: le potenze infernali non prevarranno! Si badi (contro ogni tentazione trionfalistica!) che Gesù non promette a Pietro ed alla Chiesa che prevarranno sul male ma che non saranno sopraffatti. La lotta ci sarà, ma in quella lotta sarà possibile essere “roccia”, come il nome di Pietro suggerisce, se ci si lascia afferrare dalla gratuità di Dio, se, come Pietro, si lascia che né la carne, né il sangue dicano parole risolutive, ma solo la grazia! Questo è monito grande alla Chiesa di tutti i tempi; sarà tale, e capace di attraversare i secoli, solo se non prenderà suggerimenti da carne e sangue, se non prenderà suggerimenti dal mondo e dalle sue lusinghe … solo così potrà essere luogo in cui si riconosce in Santo Nome di Dio e del suo Cristo; diversamente diviene scena di questo mondo!

La Chiesa deve custodire questa promessa, ma non a scopo trionfalistico, quasi come un’assicurazione perenne che la esime dalla fatica costosissima della fedeltà e della ricerca delle sue vie di incarnazione in ogni tempo ed in ogni luogo; la Chiesa ha ricevuto questa promessa; non l’ha ricevuta, si badi bene, nessuna “forma” di Chiesa, ma la Chiesa! Questo ci deve liberare da ogni presunzione e da ogni perversa sicurezza!

Sottilmente qui non c’è solo la parola fondativa del cosiddetto Primato di Pietro e del suo potere delle chiavi, ma c’è l’affermazione del primato che Pietro e la Chiesa devono dare a Dio ed alle sue vie che non sono secondo carne e sangue, cioè non seguono le logiche “buonsensiste” del mondo, quelle del tipo dei barjona, ma si lasciano tracciare dalla pura grazia. Sono quelle vie imperscrutabili e inaccessibili di cui ha scritto Paolo nel tratto della Lettera ai cristiani di Roma che oggi ascoltiamo.

Le chiavi che Pietro riceve (e qui c’è l’eco del testo di Isaia circa il maggiordomo del re Ezechia che abbiamo ascoltato come prima lettura) serviranno a fare una cosa che ormai è chiara: bisogna aprire a tutte le genti il tesoro del Regno, la via della grazia. Potremmo dire che qui Matteo mostra i frutti dell’umile incontro con la donna cananea (cf. Mt 15,21-31), frutti che nella finale dell’Evangelo diventeranno espliciti: «Fate discepole tutte le genti» (Mt 28,19).

Pietro riceve anche un altro compito, quello di legare e sciogliere che per i rabbini significava permettere e proibire, escludere dalla comunione o perdonare: una grave responsabilità che qui viene data a Pietro e in seguito a tutti i discepoli (o solo ai 12? Cf. Mt 18,18). Il “sapore” di potere sugli altri è tolto se si considera che questa potestà di legare e sciogliere è sottomessa al farsi oggetto della grazia; quanto più Pietro e gli altri undici si lasceranno afferrare dalla pura grazia, quanto più accorderanno alla grazia un primato, quanto più rifiuteranno di lasciarsi guidare da “carne e sangue”, tanto più avranno capacità di discernere ciò che va proibito e ciò che va permesso, dove sia la comunione e dove la separazione.

Capiamo allora che questa scena non è questione di potere, ma è questione di comunione e di primato di Dio nelle vite dei credenti. Si è “roccia” se non ci si fida delle proprie forze, ma se si mette la propria debolezza nelle mani di Dio. È Lui che può rendere “roccia” la sabbia friabile! Pietro lo sperimenterà a pieno: nel cortile di Caifa capirà di essere ancora sabbia, non ancora roccia; lì, nel cortile di Caifa l’hanno guidato la carne e il sangue; per salvare se stesso, la sua carne, Pietro è divenuto sabbia senza consistenza negando il suo discepolato.  Pietro imparerà ad essere roccia facendosi plasmare da Gesù e dal suo mistero pasquale. Pietro qui ancora non ha capito tutte le implicazioni che contiene quella sua confessione: «Tu sei il Cristo!». Pietro dovrà imparare a fidarsi delle vie incredibile e imperscrutabili della debolezza di Dio. Il barjona che è in Pietro dovrà morire sempre più e sarà dura!

È questa anche la nostra fatica e la nostra lotta, la più terribile; quella contro noi stessi e le nostre presunzioni; quella contro le nostre potenze per dare spazio alla grazia.

Il grande Patriarca di Costantinopoli Atenagora (1886-1972) lo scrisse in una pagina mirabile:

“Occorre fare la guerra più dura che è quella contro se stessi. Bisogna riuscire a disarmarsi. Ho fatto questa guerra per anni ed è stato terribile, ma adesso sono disarmato, non ho più paura di nulla, poiché l’amore caccia il timore … Se ci si disarma, se ci si spossessa, se ci si apre al Dio-Uomo che fa nuove tutte le cose, allora Lui cancella il brutto passato e ci rende un tempo nuovo nel quale tutto è possibile”.

Lasciamoci porre quotidianamente la grande domanda che ci provoca nella nostra cappella monastica: «Voi chi dite che io sia?».

Dalla risposta che diamo dipende tutto!

 

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