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Commento al Vangelo di domenica 17 settembre. Il Regno dei Cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi

Commento al Vangelo della XXIV domenica del Tempo ordinario - Anno A

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di Padre Gianpiero Tavolaro
Comunità Monastica di Ruviano (Clicca)

XXIV domenica del Tempo ordinario – Anno A
Sir 27,30-28,7; Sal 102; Rm 14,7-9; Mt 18,21-35

“Il servo spietato” (Miniatura dell’Evangelario di Reichenau o di Ottone III, secolo X)

Non è difficile cedere alla tentazione di quantificare l’amore: solo un amore ben misurato, ponderato e circoscritto, infatti, appare un amore controllabile, del quale non avere paura. Sembra questa la questione che si nasconde dietro l’interrogativo che Pietro rivolge a Gesù, quasi reagendo al discorso del Maestro sulla correzione fraterna: «Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me?». Chiedendo di definire “quante volte” si debba concedere il perdono al fratello da cui si è offesi, Pietro sta in realtà esprimendo un personale bisogno di rassicurazione, nascondendolo dietro un’offerta di perdono ragionevolmente alta («fino a sette volte»), alla quale, a sua volta, Gesù risponde chiedendo un perdono senza limiti («fino a settanta volte sette»).

La sproporzione tra queste due prospettive, quella limitata di Pietro e quella aperta all’infinito di Gesù, viene resa plasticamente da quest’ultimo mediante una parabola – quella del servo spietato: d’altra parte, tipica del linguaggio parabolico è la sproporzione tra ciò che appare ragionevole “secondo gli uomini” e ciò che diviene possibile “secondo Dio”, al punto da far saltare ogni umana pretesa di calcolo e di misura. È qui che risiede l’evangelo, la buona notizia per noi: Dio non ragiona secondo i calcoli e le misurazioni degli uomini e per questo egli consente a ogni uomo, a ogni peccatore, di vivere, al di là e al di fuori di ogni logica meramente retributiva.

La parabola del servo spietato mette così l’ascoltatore di fronte a una evidente disparità del debito contratto da due servi (cosa sono cento denari di fronte a diecimila talenti!), con l’obiettivo di proporre un modo “altro” di amare di un amore non quantificato, ma qualificato: se, come mostra la parabola, la capacità di condonare un debito non è proporzionale al proprio debito condonato (non è detto, cioè, che colui cui è condonato di più sappia amare di più), allora il problema non è di quantità, ma di qualità. La macrothymía di Dio, allora, non dice tanto la grandezza dell’amore di Dio: certo, questo amore è, come lui, infinito, illimitato e, in quanto tale, non riproducibile da noi uomini; ma il suo sentire in grande è, piuttosto, una qualità dell’amore, la cui origine è la capacità propriamente divina di commozione viscerale di fronte alla miseria dell’uomo e al suo peccato.

Il Dio che Gesù rivela, dunque, è un Dio dal volto paterno (è del padre, infatti, fare i conti con i propri servi), ma che sa amare visceralmente, come una madre: ciò che qualifica il suo amore è il sentire dentro di sé ciascun uomo – anche quello più “lontano” –, facendolo vivere sempre nelle profondità del proprio essere. Questo amore, fatta salva la sproporzione tra l’infinità di Dio e il limite della sua creatura, è un amore che l’uomo può assumere e vivere, a condizione di essere disposto a fare spazio all’altro dentro di sé. Un amore compassionevole non ha bisogno di calcolare la quantità del debito, perché non è del debito che si preoccupa, ma del debitore, al quale offre sempre una nuova possibilità di vita.

Neppure il duro monito finale con cui si chiude la parabola («Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini… Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello») contraddice il volto amorevole di Dio che da essa emerge: esso suggerisce, però, che l’amore di Dio non basta per entrare nel Regno. L’ingresso nel Regno è per coloro che, avendo fatto esperienza dell’amore misericordioso di Dio, ne assumono lo stile, la qualità, divenendo a loro volta misericordiosi come il Padre (cf. Lc 6,36).

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