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El Conde: Pinochet è un sempiterno vampiro nel nuovo film di Pablo Larraín premiato a Venezia

Su Netflix dal 15 settembre l’irriverente satira del regista cileno che ha vinto il Premio per la miglior sceneggiatura

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Noemi Riccitelli – 50 anni. 50 anni da quell’11 settembre 1973, quando il famigerato golpe guidato dal generale Augusto Pinochet rovesciò il governo democratico del presidente Salvador Allende in Cile, dando origine alla crudele dittatura militare durata ben 17 anni.
Quest’anno, a marcare questo triste, ma quanto mai necessario anniversario, c’è il nuovo film del regista cileno Pablo Larraín, El Conde, presentato nel corso dell’80esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, al termine della quale ha ricevuto anche il Premio Osella per la miglior sceneggiatura, conferito allo stesso Larraín e a Guillermo Calderón, entrambi autori della pellicola.
Il film è disponibile solo su Netflix e in cinema selezionati dal 15 settembre.
Non è la prima volta che il lavoro e l’ispirazione di Pablo Larraín si volgono alla delicata e sofferta storia del suo Paese di origine: infatti, tre delle sue precedenti pellicole, Tony Manero (2008), Post Mortem (2010) e No – I giorni dell’arcobaleno (2012) rappresentano una sorta di trilogia non intenzionale che, attraverso storie uniche e originali, attraversate da un intimo e forte sentimento di denuncia, seguono l’ascesa di Pinochet proprio dal colpo di stato fino al plebiscito che, nel 1988, lo ha poi destituito.
Tuttavia, il profilo del dittatore non era mai stato ancora interamente rappresentato sul grande schermo e con El Conde il regista cileno valica questo confine, non scegliendo tuttavia il realismo che ha caratterizzato le sue precedenti storie (si pensi anche ai recentissimi Jackie, con Natalie Portman nei panni di Jackie Kennedy e Spencer, presentato due anni fa sempre al Festival di Venezia, in cui Kristen Stewart interpretava lady Diana), preferendogli stavolta una deformazione satirica che, forse, ancora meglio, può agire da lente di ingrandimento.

 

Patagonia, oggi. Mentre per tutti il dittatore cileno Augusto Pinochet (Jaime Vadell) è morto nel 2006, lui continua a vivere, in realtà, in una residenza desolata con la moglie Lucía (Gloria Münchmeyer) e il suo fedele servitore Fëdor (Alfredo Castro), un tempo anche suo efferato braccio destro durante la feroce dittatura.
Pinochet è, infatti, un vampiro di 250 anni che ha continuato a vivere nutrendosi di sangue umano, ma ora sembra essersi deciso a morire, stanco e deluso dal giudizio negativo che l’opinione pubblica ha su di lui.

Bianco e nero. La visione di Larraín su una delle figure più controverse della Storia è affidata a questi due non colori, un connubio tenebroso: del resto, il suo protagonista ha le fattezze di una delle creature che appartengono, di fatto, al mondo delle ombre, all’oscurità.
Pinochet è un vampiro che si è sempre nutrito di sangue altrui per vivere e la sua fascinazione sembra essere sempiterna.
Una metafora tranchant che la scelta stilistica della fotografia monocromatica (di Edward Lachman) contribuisce ad enfatizzare.

Tuttavia, a supplire l’assenza di colori c’è lo spirito vorace di cui la sceneggiatura è intrisa: Larraín e Calderón fanno sì che ogni dialogo e battuta mostri ed esprima le nefandezze, la perversione e corruzione dei protagonisti, assestando dei colpi verbali che non risparmiano nessuno dei coinvolti nella compagine storica della dittatura, tra presente e passato, nella sfera pubblica e in quella privata.
Un vortice di parole secco e diretto con accenti di umorismo nero che prende vita nelle interpretazioni brillanti e grottesche dei protagonisti, profilate con chirurgica infimità: Jamie Vadell e Alfredo Castro (quest’ultimo sodale di Larraín anche in altre sue pellicole), su tutti, rispettivamente nei panni di Pinochet e il suo braccio destro Fëdor, si stagliano come due algide figure non scalfite dal tempo e mai pentite delle loro azioni.
Accanto a loro il resto del cast è tutto bene in parte, con una menzione particolare alla controparte femminile: Gloria Münchmeyer, Paula Luchsinger e Stella Gonet sono notevoli.

El Conde propone sicuramente una suggestione interessante e originale, che vale i riconoscimenti che la pellicola ha ricevuto: Larraín rappresenta Pinochet nel solo modo in cui, probabilmente, un usurpatore (insieme ai suoi complici) può essere rappresentato, presentandone una caricatura che sì colpisce e in parte ridicolizza, ma che enfatizza anche l’aspetto brutale della figura in questione insieme alla sua eredità nel contesto politico-sociale contemporaneo.
Ciò che manca, forse, è il coinvolgimento emotivo che una narrazione come questa dovrebbe recare con sé: lo scorso anno a Venezia veniva presentato Argentina, 1985 di Santiago Mitre (qui la recensione), il film che analogamente rievocava il tragico passato di un altro Paese sudamericano violato dalla dittatura, quella di Videla.

Sebbene appartenente ad un diverso genere, quella rappresentazione si presentava umana, ricca di sentimento ed enfasi storica; El Conde ha una sua propria dimensione, si allontana certo da un classico e “bonario” racconto storico, ma non suggella del tutto con una forte affermazione la sua identità e pur suscitando indignazione, colpisce solo in parte, come se la caricatura, l’effetto “fantoccio”, avesse di fatto alienato il protagonista, rendendolo lontano dalla realtà e, mentre il film scorre, si ha quasi l’impressione di guardare solo il teatro di una macabra fantasia e non, come è stato, una dolorosa e tragica verità.

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